JAMM' MO'

GLI ALTRI SITI DI JAMM' MO'

 

 Image1.jpg (29118 byte)

  maurizio padula

Dei moti popolari di "jamm' mÔ", che costituiscono l'episodio piÝ clamoroso, se non il piÝ significativo, della storia di Sulmona dal dopoguerra a oggi, alla lunga si sarebbe finito col perdere anche la memoria.

Esistono, É vero, documenti d'epoca sparsi un po' dovunque, tra le cronachette locali e sulle pagine nazionali di quotidiani e riviste, o nei servizi radiofonici. Esistono i ricordi, piÝ o meno deformati dal tempo, di singoli protagonisti. Ma una ricostruzione organica, finora mancava. Il libro di Maurizio Padula colma questa lacuna. Quei lontani fatti - non tanto perÔ, che non facciano sentire ancora oggi gli effetti delle scelte politiche e di sviluppo che allora determinarono - vi sono ricostruiti con molta chiarezza, maturitÁ di giudizio e scrupolo di ricercatore, oltre che con una sottile e costante simpatia umana.

Ne viene fuori, alla fine, l'immagine di una narrazione bene orchestrata, che ha il sapore durevole delle cose "compiute".

(v.m.)

 

 

Jamm' mÔ: i fatti

 

 

 

Jamm' mÔ: la borghesia di Stato a Sulmona

 

Prefazione

La prima edizione  di Jamm' MÔ É stata pubblicata nel giugno 1986 dalla "Libreria Di Cioccio" di Sulmona.
I curatori erano Mauro Calore, Fabio Maiorano e Vittorio Monaco.

La presente edizione, curata da Nadia Padula e Roberto Mattarolo, É nient'altro che la trasposizione su web della prima edizione, mantenendo buona parte degli aspetti grafici nonchÉ le note di copertina.

I disegni fuoritesto, anch'essi tratti dalla prima edizione, sono di autore anonimo. Quasi certamente sono coevi ai fatti di "Jamm' mÔ", sorta di diario "illustrato" di un attento osservatore.

Rinvenuti casualmente nella primavera del 1985 e perciÔ salvati da sicura distruzione, sono ora conservati presso la biblioteca del Comune di Sulmona.

 

jamm01.jpg (70990 byte)

PREMESSA

Di "JAMM' Mõ" si É sempre detto che É stata una rivolta borghese. Sin dal suo esplodere, la stampa italiana, che si É largamente occupata del caso, qualificÔ il moto popolare del 2 e 3 febbraio del 1957 inchiodandogli addosso l'etichetta "borghese". E stata ed É, questa, la presentazione strumentale e superficiale di una realtÁ molto piÝ complessa e mai sottoposta ad un'analisi severa ed approfondita. La "rivolta popolare di Sulmona", come anche e contraddittoriamente É stata chiamata, alla luce dell'indagine che qui di seguito si espone, risulta essere invece il prodotto della miscela di alcuni elementi essenziali della realtÁ sociale e politica cittadina di allora con altri collegati alla realtÁ nazionale. Da una parte va considerato lo stato di miseria endemica dell'economia locale; dall'altra va dato il giusto rilievo, senza cadere in facili quanto sterili illazioni propagandistiche, alla lotta esasperata condotta dal gruppo, dirigente della locale Democrazia Cristiana contro gli organi centrali e parlamentari del proprio partito per ottenere nella Valle Peligna un centro di potere politico ed economico, sostenuto, presso l'esecutivo o presso il Parlamento, da un patrono locale.

Anche l'arroganza dell'organo provinciale di emanazione governativa, e cioÉ il Prefetto, inoltre deve essere presa in considerazione al fine di poter intendere sino in fondo il "fatto" di JAMM' Mõ. Infatti la "calata" da L'Aquila a Sulmona da parte del Prefetto per ripristinare l'autoritÁ istituzionale, scomparsa con le dimissioni del consiglio comunale, seguite al trasferimento del Distretto nel capoluogo di provincia - effettuato nottetempo e manu militari -, deve essere considerata l'elemento che ha innescato la rivolta vera e propria.

Su tutto questo, perÔ, campeggia un altro elemento di carattere nazionale che permea di sÊ tutti gli episodi dell'intera vicenda e la rende comprensibile in ogni suo aspetto; la genesi cioÉ di quella che verrÁ poi definita dalla letteratura economica, politica e giuridica degli anni successivi, "la borghesia di stato".

Con questa denominazione si indica una realtÁ istituzionale, politica ed economica che tocca nel suo ventre molle il costituirsi in Italia di quella che la dottrina giuridica chiama la 'costituzione materiale', di quel complesso di regole non scritte, cioÉ, che, spesso in contrasto con quelle scritte della Carta Costituzionale, di fatto caratterizza il modo di essere della democrazia delle istituzioni e del loro funzionamento in Italia. In un eccesso di schematizzazione e mutuando dal linguaggio politico corrente, la "borghesia di stato" puÔ essere definita come quel gruppo di uomini politici italiani che ha piegato ai propri interessi di partito gli organi della Repubblica e le funzioni loro proprie al fine di assicurarsi la permanenza ai vertici dello Stato per controllarne "ad libitum" l'azione politica attraverso la manovra ed il controllo di vasti settori della finanza pubblica. Questa, per molti versi, É una definizione che presta il fianco a molte obiezioni, non ultima quella che le definizioni in questa materia sono pericolose. Tuttavia, al di lÁ delle inesattezze che possono essere colte nella definizione appena data della "borghesia di stato", É certo che molto della realtÁ 'storica' di quegli anni, ed anche degli attuali, É in essa racchiusa; infine la definizione data scaturisce dalla necessitÁ di fissare un punto, di riferimento all'indagine che si presenta, ed É il risultato di una riflessione critica non prodotta da chi scrive, bensÍ nata e divenuta patrimonio di larghissime correnti di pensiero economiche e po1itiche, le quali godono di ben altra autoritÁ che non quella, dell'autore di queste note.

Tornando al rapporto intercorrente tra la particolare cultura politica e il ruolo svolto dalla borghesia di stato nella vicenda di "Jamm' mÔ", si puÔ dire che esso ha rivestito un carattere paradigmatico, É stato un esempio di come il partito di maggioranza relativa, pur in una dialettica interna spesso degenerata in veri e propri scontri tra fazioni, É riuscito a gestire alcuni momenti critici della realtÁ economica e sociale italiana per costruire un proprio sistema di potere che, lungi dal corrispondere agli interessi della collettivitÁ, rispondeva alle esigenze, della piÝ varia natura, proprie e dei propri leader.

Entrando nel particolare della vicenda di " Jamm' mÔ " si puÔ affermare, anticipando i risultati della indagine, che, sebbene resti fermo il carattere di protesta popolare delle due giornate della rivolta, chi ne trasse i maggiori benefici non fu certo il 'popolo' di Sulmona, bensÍ 'i borghesi' del partito di maggioranza relativa che riuscirono a far tornare in proprio vantaggio gli effetti della stessa. Anzi si puÔ tranquillamente affermare che senza le due giornate di rivolta popolare 'la borghesia di stato sulmonese' non avrebbe ottenuto nulla nei confronti di quella emergente e ben piÝ potente di L'Aquila.

Il gioco tra le due componenti territoriali abruzzesi del partito di maggioranza relativa, al 30 gennaio del '57, si era infatti concluso con la sconfitta campale della Democrazia Cristiana sulmonese: il Distretto era stato trasferito a L'Aquila in una maniera arrogante e, nello stesso tempo, maramalda, dimostrando come tutte le istituzioni dello Stato si fossero mobilitate al fianco dei boss aquilani per annichilire le petulanti richieste dei piccoli notabili sulmonesi. Il futuro di questi, senza il sommovimento delle due giornate, sarebbe stato ben misero: essi avrebbero dovuto legarsi inesorabilmente al carro dei leader aquilani ed accontentarsi di svolgere, anche nella casa propria, il ruolo di comprimari.

La rivolta popolare rimise, perÔ, tutto in gioco. Le prime pagine dei maggiori quotidiani del paese, dal Nord al Sud, dovettero occuparsi di Sulmona, il Parlamento dovette discuterne ed alla fine votare un ordine del giorno unitario avente come primi firmatari insieme, addirittura, un democristiano ed un comunista. CiÔ che non aveva ottenuto in tre anni, di scioperi generali, delegazioni di protesta, manovre sottobanco, la borghesia di stato sulmonese l'ottenne proprio grazie a quei due giorni. Mentre tutta la popolazione protestava violentemente contro la violenza ottusa di un Governo "ch' fÁ dÁ manganellate allu povere affamate", come ebbe modo di dire un anonimo verseggiatore in vernacolo, venivano compiendosi i disegni dei 'borghesi' che dal '54 avevano tentato invano di ottenere un posto alla tavola che la Democrazia Cristiana, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, andava imbandendosi. Fu cosÍ che agli inizi degli anni '60 a Sulmona venne paracadutata la germanica Siemens Elettra sotto le mentite spoglie dell'Adriatica Componenti Elettronici, e, fino al 70, il Nucleo Industriale ed infine la FIAT.

Al termine di questa introduzione, una nota metodologica. Nella ricostruzione dei fatti delle due giornate del febbraio del '57, e degli antecedenti, si É privilegiata la testimonianza documentale diretta, sia d'archivio che di cronaca giornalistica, utilizzando la testimonianza dei protagonisti solo se suffragata da raffronti documentali o solo in mancanza di altre fonti.

Si ringraziano il professor Antonio Trotta, Sindaco del Comune di Sulmona all'epoca delle ricerche relative a questa indagine, che ha consentito a chi scrive l'accesso ai documenti dell'Archivio Municipale; l'avvocato Giovanni Autiero, per la sua preziosa ed insostituibile opera di consulenza; il dottor Gaetano Stucchi, Direttore del settore Programmi della sede regionale di Pescara della RAI, per proposta del quale questa indagine É stata avviata; ed infine quanti hanno cortesemente prestato la propria collaborazione nella raccolta dei dati necessari alla stesura di questo dossier.

jamm02.jpg (102626 byte)

IL DISTRETTO, L'ULTIMA RAPINA:

 

Prima di entrare nel merito della ricostruzione storica dei fatti di "Jamm' mÔ", É necessario tratteggiare in grandi linee il contesto di politica economica nel quale quei fatti si produssero. Un contesto nazionale ed internazionale perchÊ, anche a voler considerare a sÊ stante il fazzoletto di terra che É la Valle Peligna, non si puÔ non ritrovare in esso il trait d'unione che lo lega all'intero sistema cui appartiene.

E' notorio il ruolo che gli Stati Uniti svolsero per la ricostruzione dell'Europa. I governanti di quel paese, nell'impostare un piano di aiuti alle nazioni europee del blocco occidentale, si posero come obiettivo di fondo quello di creare un'Europa forte, economicamente sicura e quindi in grado di fronteggiare politicamente il blocco orientale.

Gli studiosi di economia abruzzesi, Mattoscio e Pelino, in una loro relazione allegata agli atti del convegno "Anni 50: il Piano del lavoro in Abruzzo", promosso dalla Camera del Lavoro di Sulmona nel novembre del '79, hanno citato diffusamente il Country Study dell'economista americano Paul Hoffman, uno degli amministratori del Piano Marshall. Nello Study presentato al Congresso americano nel febbraio del '49, Roffman ha criticato "l'incapacitÁ italiana di promuovere la crescita, che doveva essere l'unico vero obiettivo dei paesi occidentali e supporto ineliminabile del confronto con il blocco orientale". Gli aiuti del piano Marshall, sosteneva ancora Roffmann, dovevano far raggiungere all'Italia il livello proprio dei paesi europei sviluppati, eliminando la disoccupazione ed il basso livello della produzione e dei consumi. Ed un ruolo fondamentale in questo senso avrrbbe dovuto svolgere lo Stato mediante una mole massiccia di investimenti pubblici.

Sul tema della localizzazione delle risorse e di incentivazione dello sviluppo regionale, l'analisi di Hoffmann implica che, volendo fare della eliminazione delle zone di arretratezza il principale obiettivo macroeconomico, occorreva innanzi tutto fare dell'intervento nel Mezzogiorno una dimensione costante della politica governativa, e non una forma di intervento straordinario separato dagli altri comparti dell'economia, e quindi predisporre opportunitÁ di investimento molto piÝ numerose nella regione piÝ arretrata rispetto a quella sviluppata. Al contrario in Italia si É avuta una politica economica che ha provocato squilibri comulativi nelle regioni sottosviluppate: l'Abruzzo É una delle regioni che piÝ hanno risentito della mancata impostazione in termini di uno sviluppo qualificato del problema regionale, ed É a questa grave deficienza che va attribuito il suo persistente sottosviluppo relativo nel corso degli anni '50. (Mattoscio-Pelino, op. cit. pag. 58).

Lo stato, continuano Mattoscio e Pelino, preferÍ seguire, tra l'altro, una politica economica caratterizzata da una manovra monetaria, quella ormai divenuta nota con il nome Einaudi-Pella. Va detto, comunque, che nell'immediato dopoguerra, fino ai primi anni '50, e quindi a ridosso dello incipiente boom economico, la politica economica dei governi centristi, in vista dell'integrazione economica con gli stati europei, scelse di sostenere l'industria del Nord, ritenuta capace di reggere il confronto con gli apparati industriali dei partner europei, invece che prevedere un'industrializzazione del Mezzogiorno, ancora tutta da inventare.

Tuttavia, al fine di ridurre la disoccupazione ed elevare il tenore di vita delle masse meridionali, i governi centristi, messa da parte l'ipotesi dell'industrializzazione, si avvalsero in primo luogo della valvola dell'emigrazione ed in secondo luogo di importanti strumenti di politica economica quali la Riforma Fondiaria e la Cassa per il Mezzogiorno.

Il primo di questi due strumenti, attraverso particolari meccanismi, avrebbe dovuto mettere a disposizione delle masse bracciantili meridionali, e di alcune altre aree del paese particolarmente depresse e per questo assimilate al Mezzogiorno, oltre 8 milioni di ettari di terreno. I fatti poi dimostrarono che gli espropri interessano solo 800 mila ettari di quelli previsti, dei quali 650 mila effettivamente nel Mezzogiorno. (A. Graziani, "L'Economia Italiana dal '45 ad oggi", il Mulino, Bologna, 1979, pago 48). Qualcosa di positivo questa riforma produsse, ma solo in quelle ristrette zone nelle quali venne accompagnata da intense opere di trasformazione dell'assetto del territorio in funzione di una sua maggiore produttivitÁ agricola; in altre zone, nelle quali pure avrebbe dovuto operare, e soprattutto in quelle interne rispetto alle coste, la riforma portÔ solo espropriazioni, ed in quantitÁ minima; le produzioni basate su un'agricoltura arida crearono redditi estremamente modesti.

La Cassa per il Mezzogiorno venne istituita con legge il 10 agosto del 1950, ed in seguito alla scelta di sostenere l'apparato industriale del Nord, a questo nuovo istituto venne affidata la realizzazione di notevoli infrastrutture civili nel, Sud, quali strade, opere idrauliche, scuole, ospedali. E ciÔ perseguendo l'obiettivo di aumentare l'occupazione, il tenore di vita ed il livello di reddito nel Mezzogiorno che cosÍ sarebbe divenuto, tra l'altro, un'area di espansione commerciale per i prodotti industriali del Nord.

Accanto a questa manovra - che, considerato lo stato di degrado e di sottosviluppo del Mezzogiorno, assunse i tratti di un intervento umanitario piÝ che quello di un vero e proprio piano di politica economica - ne venne contemporaneamente proposta un'altra, minoritaria e marginale date le premesse, in direzione dell'industria. In questo caso venne, perÔ, adottata una forma indiretta di intervento, attraverso una manovra che verrÁ detta degli incentivi, con mutui agevolati al 3% o a fondo perduto per gli insediamenti industriali nel Sud di piccole e medie imprese che avrebbero potuto cosÍ ridurre il costo iniziale di impianto o il costo di esercizio.

La caratteristica umanitaria, e quindi in larga parte assistenziale, di tale politica economica, non prevedendo investimenti produttivi, si risolse alla resa dei conti in uno spreco. L'economista inglese Vera Lutz, che si É preoccupata della questione in un saggio pubblicato sulla rivista "Mondo Economico" il 29 ottobre 1960, intitolato "Una revisione critica della dinamica dello sviluppo del Mezzogiorno", ha scritto che le strade costruite dalla Cassa per il Mezzogiorno: "(...) servivano ormai agli abitanti del mezzogiorno soltanto per abbandonare i loro paesi di origine". Ma, emigrazione ed altro a parte, un effetto particolare di questa manovra economica dei governi centristi si ebbe nel configurare la struttura degli apparati politici del Sud. Gli enti locali gestirono la realizzazione delle infrastrutture civili, decidendo sia dal punto di vista amministrativo che da quello economico relativamente, É chiaro, alla spesa di queste risorse finanziarie. Inoltre questa situazione, essendo la gestione della Cassa per il Mezzogiorno centralizzata, di fatto determinÔ una saldatura di natura clientelare tra gli uomini politici degli enti locali meridiona1.i e quelli eletti nel Palazzo romano. Ne nacque un intreccio politico, sociale ed economico che dura ancora oggi anche in presenza di, istituzioni di democrazia decentrata e che condiziona il modo d'essere della societÁ civile meridionale. é di qui che bisogna partire per capire le ragioni del fatto "Jamm' mÔ".

Riassumendo brevemente le giÁ enunciate e schematiche premesse teoriche poste dai governi centristi di quel periodo a fondamento della propria politica economica, possiamo dire che, per raggiungere l'obiettivo della diminuzione della disoccupazione, dell'aumento del tenore medio della vita dei cittadini e dell'integrazione economica del paese nel mercato europeo, venne potenziato l'apparato industriale del Nord, mobilitando tutte le energie del paese in questo senso e, limitatamente al Sud, attingendo a piene mani nella riserva di mano d'opera che questo rappresentava. Mano d'opera non qualificata e a basso costo. Nel meridione si attenuÔ la morsa della disoccupazione attivando un flusso migratorio interno ed esterno al paese, cercando di avviare la Riforma Fondiaria e con gli interventi diretti della Cassa per il Mezzogiorno.

Senza entrare in ulteriori analisi su questo tipo di politica economica, É necessario mettere in rilievo, come giÁ parzialmente qui É stato fatto, che il passaggio dalle premesse teoriche alla concretizzazione di tale manovra comportÔ la degenerazione della stessa in strumento di potere clientelare al servizio del partito di maggioranza relativa. Bisogna inoltre tener presente che la centralitÁ decisionale degli interventi finanziari comportÔ per gli uomini politici degli enti locali meridionali la necessitÁ di avere una testa di ponte nella stanza dei bottoni del Palazzo romano. La necessitÁ, cioÉ, di avere a Roma parlamentari che, impegnati in prima persona in incarichi di governo, a qualsiasi livello, potessero, in ragione della massa di voti rappresentata, incanalare verso i collegi elettorali di provenienza la maggiore quantitÁ di finanziamenti possibile, anche se a scapito, dell'interesse generale.

Con il sistema elettorale introdotto nel nostro paese nel dopoguerra, soprattutto con la dilatazione territoriale dei collegi elettorali, Sulmona, e per essa il partito di maggioranza relativa - l'unico che aveva inviato propri rappresentanti in parlamento - perse la possibilitÁ di avere propri uomini nel Palazzo nei momenti cruciali della dislocazione delle risorse finanziarie per il Mezzogiorno. GiÁ questo fatto costituiva di per sÊ un evidente motivo di risentimento da parte dei notabili democristiani sulmonesi nei confronti dei loro amici della provincia che, per essere presenti nel Palazzo, potevano meglio soddisfare le esigenze patronali del proprio collegio, procurando ad esso finanziamenti o impedendo che il Governo e la, Pubblica Amministrazione in genere adottassero provvedimenti contrari all'economia dello stesso.

La decisione di sopprimere il Distretto Militare di Sulmona, adottata contro ogni logica di un'equa ristrutturazione logistico-militare, ed ultima spoliazione in ordine di tempo di altri uffici amministrativi di varia natura - tutti riassorbiti dal capoluogo provinciale - esasperÔ questo risentimento non tanto per l'episodio in sÊ, quanto invece perchÊ chiariva, al di lÁ di ogni ragionevole dubbio, che sul piano della gestione clientelare del potere il gruppo democratico cristiano di L'Aquila non era disposto a concedere nulla agli "amici" delle altre zone. Il blocco degli "amici" di Sulmona e della Valle Peligna si convinse che veniva messa in discussione la propria sopravvivenza, minacciata di morte per asfissia causata dalla invadente potenza dei capi aquilani e dalla povertÁ endemica della zona, destinata a durare nel tempo. E l'immediata concretizzazione della difesa della propria esistenza venne trovata nella mobilitazione popolare in difesa del Distretto Militare, periodicamente ricorrente, dallo sciopero dell'agosto del '54 fino alle dimissioni del consiglio comunale il 30 gennaio del '57. In questa data il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana sulmonese, di fronte al trafugamento notturno del Distretto Militare, rispose con il "suicidio" di tutte le istituzioni civili cittadine. Ma il 'cupio dissolvi' posto in atto con le dimissioni di tutti gli organi dell'ente locale sulmonese, non travolse il gruppo dirigente DC che in tutte le situazioni, anche le piÝ drammatiche, É sempre riuscito a salvaguardare la propria identitÁ e compattezza qualitativa, anche se quantitativamente compromessa. A distanza di oltre un quarto di secolo da quei fatti, riesaminandoli nella loro completezza, si ha l'impressione che la prima parte della vicenda "Jamm' mÔ", durata ben tre anni e mezzo, altro non sia stata che una vicenda interna della Democrazia Cristiana; che, cioÉ, sia stata una partita giocata e vinta dalla DC aquilana da una parte contro la DC sulmonese dall'altra. Una partita fatta concludere in maniera dignitosa e retorica non da un democristiano, bensÍ da un personaggio dignitoso e retorico che con la Democrazia Cristiana aveva poco da spartire: il liberale Marchese Mazara.

Se perciÔ si É parlato di rivolta borghese per dare un'etichetta a "Jamm 'mÔ", con molta probabilitÁ ci si É lasciati condizionare, oltre che dai numerosi personaggi che occuparono la ribalta, anche dall'aspetto di questa prima parte della vicenda che, sebbene opportunamente dissimulato, si leggeva tra le righe. La seconda parte di "Jamm' mÔ" nasce da una rivolta popolare ma produce gli effetti che erano stati perseguiti, ma non ottenuti nella prima. Nella prima fase i protagonisti li troviamo tutti all'interno dell'entourage democristiano e sono figure di liberi professionisti, ufficiali a riposo ed esponenti della vecchia nobiltÁ locale; il popolo, se ci si passa il termine, aveva svolto soltanto una funzione di comprimario, utile allo svolgimento della commedia, ma sul tessuto di una trama intrecciata da altri. Nella seconda fase i protagonisti della prima vengono spazzati via ed i comprimari occupano prepotentemente la scena, non rispettando piÝ le battute del copione. Viene perÔ inconsapevolmente avviato quel processo che consentirÁ ai notabili DC locali di farsi "borghesia di stato", nonostante la sconfitta ad opera dei boss aquilani.

L'innesco alla deflagrazione dei due giorni di rivolta violenta viene dato dalla "calata" del Prefetto da L'Aquila a Sulmona. Il funzionario del governo viene a rampognare gli uomini dell'ente locale, e non solo quelli, per essersi dimessi dalle cariche pubbliche (1). Non sono stati trovati documenti o testimonianze che consentano di affermare con certezza che il Prefetto, nell'occasione, abbia riunito nella sua persona le figure del funzionario di governo e del commissario di partito giunto a Sulmona non solo per ristabilire il turbato ordine costituzionale, ma anche quello compromesso e proprio del partito della DC. Pure questa É un'ipotesi che non puÔ essere sottaciuta perchÊ sorretta da indizi non trascurabili.

Ma, tornando alle cause dei due giorni di rivolta violenta, la presenza del Prefetto a Sulmona, come abbiamo detto, fu la causa scatenante. Le ragioni piÝ profonde, perÔ, vanno ricercate nelle condizioni di estrema povertÁ in cui viveva la maggioranza della popolazione sulmonese. In un'intervista rilasciata all'inviato di "Paese Sera", il segretario comunale, il dottor Ferri, affermava che almeno il 40% della popolazione censita non possedeva alcun reddito e, concedendosi una nota ironica e nel contempo tragica, continuava affermando che dal momento che nessuno a Sulmona andava in carcere per furto, non riusciva a capire come quel 40% potesse vivere, in quanto l'unica prospettiva che in quella situazione avrebbe potuto assicurare il pane quotidiano era quella di darsi al furto come professione. é evidente che in una situazione di questo genere non si puÔ pensare di gestire questioni interne di partito sull'onda e con la strumentalizzazione di una protesta socialmente diffusa. All'ennesima provocazione la collera popolare, alimentata dalla disperazione della disoccupazione e della mancanza di prospettive, andÔ per proprio conto, prendendo la mano a chi pensava di poter cavalcare la tigre con ogni tranquillitÁ. E Sulmona, cosÍ, fu sbattuta in prima pagina a sottrarre con la sua "rivoluzione" spazio ed interesse allo scandalo Montesi-Piccioni.

Tuttavia subito dopo, nel luglio del '57, dopo i dibattiti parlamentari aventi ad oggetto i fatti di Sulmona del marzo e dopo la campagna elettorale del maggio per il rinnovo dell'amministrazione comunale, il Parlamento, con legge numero 634, disciplinÔ l'istituzione di Consorzi tra enti locali per Aree e Nuclei per lo sviluppo industriale. Visti i risultati deludenti ottenuti dalla Riforma Fondiaria e dalla Cassa per il Mezzogiorno, i governi centristi si persuasero ad adottare, per tentare di risolvere, il problema del Mezzogiorno, la linea dell'industrializzazione attraverso una manovra piÝ articolata di quella propria degli incentivi. La legge 634 del 30 luglio del '57 stabiliva che i consorzi avrebbero dovuto individuare i suoli da destinare ad aree di sviluppo industriale, allestendo in essi tutte le infrastrutture di supporto per i futuri apparati produttivi. Le imprese che avessero deciso di insediarvisi avrebbero ottenuto agevolazioni piÝ elevate di quelle previste per il Sud dalla Cassa, e cioÉ contributi a fondo perduto in ragione del 20% del costo iniziale dell'impianto e molte altre di carattere fiscale. La legge, inoltre, introduceva una differenziazione tra Aree e Nuclei, indicando nelle prime le zone con una piÝ spiccata vocazione industriale che non i secondi. Di queste ne furono indicate, con testualmente alla normativa, quattro: la Napoli-Caserta-Salerno, la Bari-Taranto-Brindisi, la Catania-Siracusa e la Porto Torres. In poco tempo da pochissime unitÁ, Aree e Nuclei divennero oltre 50 e dal '58 al '63 si ebbe una cospicua ondata di investimenti nel Mezzogiorno tanto che si toccÔ la punta massima storica del 25% rispetto al totale nel settore nazionale della industria. Anche questo intervento lasciÔ il suo segno nella societÁ meridionale. A questo proposito l'economista Augusto Graziani, (op. cit., pag. 73), afferma testualmente: "Le aree di sviluppo industriale erano state concepite in opposizione all'azione centralizzata della Cassa, come esperimenti di decentramento della politica di industrializzazione e di maggiore autonomia delle forze politiche locali. Sebbene in linea di principio questa avrebbe potuto dare luogo ad una gestione piÝ democratica dell'intervento, É assai discutibile se ciÔ sia di fatto avvenuto. Infatti, sul piano tecnico, i Consorzi risultarono sovente incapaci di organizzarsi in maniera adeguata e l'intervento di sostegno della Cassa si accrebbe progressivamente, sia nella fase di creazione delle aree che in quella successiva di gestione. I Consorzi utilizzarono invece la loro autonomia sul piano della gestione politica; e la utilizzarono in direzione non di rado clientelare, sfruttando i mezzi finanziari di cui disponevano come strumenti di lotta politica. Dalla politica di industrializzazione non nacque dunque una nuova classe di borghesia industriale, ma ne uscÍ ulteriormente sviluppata e consolidata una classe di burocrati amministratori, la cosiddetta borghesia di stato, che agÍ essenzialmente quale strumento di conservazione sociale".

Ed É sulla lotta tra i gruppi democristiani di L 'Aquila e Sulmona, tesi a divenire ciascuno borghesia di stato a scapito dell'altro, che É nato il fatto di "Jamm' mÔ" nei suoi aspetti di protesta borghese e di rivolta popolare.

 

Note:

(1)

In primo luogo la dipendenza gerarchica diretta del Prefetto dal Governo implica di per sÉ non solo una dipendenza di natura strettamente amministrativa, ma anche un rapporto fiduciario di natura politica che in quel periodo era molto forte. In secondo luogo si puÔ dire, e le cronache dell'epoca lo dimostrano, che il Prefetto abbia mantenuto contatti diretti non solo con il Comune e con il Comitato di difesa cittadino, ma anche e soprattutto con il gruppo dirigente vero e proprio della Democrazia Cristiana di Sulmona. Da segnalare a questo riguardo un trafiletto apparso su un quotidiano che riportava una notizia secondo la quale il 22 febbraio del '57 una qualificata delegazione della Democrazia Cristiana sulmonese era stata convocata a L'Aquila per un colloqui con il Prefetto. Nella notte tra il 28 e 29 febbraio il Distretto venne trafugato con una metodologia operativa certo non predisposta all'ultimo momento.

jamm03.jpg (90296 byte)

LA CIRCOLARE DELLE DUE ORE

 

"AddÍ 9 agosto 1954 A tutti i corrispondenti di stampa Sulmona. Prego le SS.LL. favorire nel mio ufficio giovedÍ prossimo 12 c.m., alle ore 19 precise, per importanti comunicazioni. Ringrazio ed ossequio. Il vice sindaco ingegner C. Giorgi".

La genericitÁ di questa convocazione, concisa e suggestiva al punto da sollecitare il senso professionale di qualsiasi giornalista, avvia quella parte della storia di Sulmona sfociata nei moti popolari denominati "Jamm' mÔ". I fatti del 2 e 3 febbraio del '57 trovano la loro origine proprio nelle quattro righe di questa convocazione ad una conferenza stampa. Le importanti comunicazioni cui si riferisce il vice sindaco riguardano alcune voci sulla sorte del, Distretto Militare che dovrebbe essere soppresso.

Purtroppo, alla data della spedizione di questa convocazione, É ormai tutto deciso. Il ministro Paolo Emilio Taviani, titolare del Dicastero della Difesa, in applicazione di alcune, direttive adottate dai comandi militari della NATO, tese a ristrutturare la rete degli eserciti alleati in Europa, deve sopprimere 48 dei Distretti Militari dislocati sul territorio nazionale. Tra questi É compreso quello di Sulmona. Corre voce, ma non vi É alcuna documentazione al riguardo, che ad un primo esame del Ministero della Difesa, il Distretto da sopprimere sarebbe stato, in Abruzzo, quello di L' Aquila. La circolare ministeriale, perÔ, indica quello di Sulmona tra gli altri. E quando la notizia trapela, il sindaco Ercole Tirone ed il vice sindaco Clelber Giorgi corrono a Roma per vederci piÝ chiaro. I funzionari del sottosegretariato non parlano. "Non ho avuto nÊ conferma nÊ smentita, ma soltanto la comunicazione che, per ora, l'attuazione della soppressione dei 48 distretti É soppressa", dirÁ alla confeI1enza stampa l'ingegner Giorgi. Anche il sindaco Tirone ha avuto una fitta serie di incontri riservati con 'personalitÁ', ma non ottiene altro se non impassibili 'no comment'.

Questo, piÝ o meno, É quanto riferisce l'ingegner Giorgi ai giornalisti. Fino a quel momento i notabili sulmonesi avevano provato a giocare la carta del corridoio ministeriale per conoscere meglio la situazione ed eventualmente intervenire. Ma non avevano ottenuto nulla. Anzi, "da parte di taluni erano venuti consigli per azioni energiche e addirittura clamorose..." afferma durante la conferenza stampa il vice sindaco, e continua "... ma in mancanza di notizie esatte, ciÔ sarebbe intempestivo e pregiudizievole agli interessi della CittÁ. Meglio agire con cautela". Queste che riportiamo sono parole testuali riprese da un verbale redatto sull'andamento della conferenza stampa e conservato in un fascicolo dell'archivio del Comune di Sulmona. E abbastanza strano verbalizzare una conferenza stampa; si É inteso forse costituire un documento a futura memoria?

Di fronte ai fatti riferiti dall'ingegner Giorgi, i giornalisti intervenuti rimangono perplessi. Sono presenti il professor Antonio Trinchini per il "Momento Sera" ed il "Roma", l'avvocato Masci per il "Giornale d'Italia", don Antonio D'Ortensio per "L'Amico del Popolo", Montesi per "Il Messaggero", Di Gregorio per il "Secolo d'Italia", Vernacotola per "Il Mattino", Poillucci per "L'Avanti". La notizia della soppressione del Distretto Militare aleggia nell'aria, ma non É ancora data per certa: il sindaco Tirone deve ancora avere un colloquio con il miinistro Taviani. E meglio attendere, ma nel frattempo Masci consiglia di orchestrare una campagna di stampa perchÊ l'avvocato Tirone giunga forte dell'attenzione dell'opinione pubblica all'incontro con il Ministro.

L'incertezza della situazione permane fino al 19 agosto, data nella quale per via indiretta si ottiene la certezza che il Distretto Militare di Sulmona É stato soppresso: una circolare ministeriale, giunta nelle prime ore della mattinata, impone agli impiegati civili del Distretto di scegliere, entro due ore dal ricevimento della circolare, una nuova residenza.

La notizia si diffonde immediatamente in cittÁ attraverso un manifesto firmato dal Sindaco Tirone. In una corrispondenza apparsa sull'"Avanti" del giorno successivo, Poillucci racconta l'alto grado di mobilitazione raggiunto in cittÁ in quelle ore: nel pomeriggio, in seduta straordinaria fulmineamente convocata, il Consiglio Comunale si dimette all'unanimitÁ; viene contemporaneamente costituito un comitato di agitazione che proclama lo sciopero generale di 24 ore per l'indomani; la corrispondenza termina con le parole:"in cittÁ regna vivo fermento", ed É vero.

La seduta del Consiglio Comunale É molto tesa. Il Sindaco Tirone, presenti 21 consiglieri su trenta, racconta le manovre compiute durante i primi giorni di agosto per conoscere la veritÁ sulla soppressione del Distretto. Sono interpellati il Comandante del Distretto, il Generale Comandante di zona, telefonicamente l'onorevole Giammarco, l'onorevole Spataro in vacanza a Scanno, il Capo Gabinetto del Sottosegretario del Ministero della Difesa, tutti invano. Solo nella mattinata il Generale Comandante di zona ha assicurato che il provvedimento di soppressione É stato sospeso anche se il Distretto É stato comunque declassato.

"Si cerchino altrove i distretti da mutilare e declassare; ne troveranno" chiude la sua relazione, polemicamente, il Sindaco. E polemica É la discussione che segue, anche se alla fine prevale la necessitÁ di dare una risposta univoca all'azione di forza tentata dal Ministero della Difesa, con l'imposizione agli impiegati di scegliersi la nuova residenza in due ore. Viene quindi votato il seguente ordine del giorno:

"Il Consiglio Comunale, di fronte ai provvedimenti adottati in danno del Distretto Militare, in segno di viva e sdegnosa protesta, rassegna le proprie dimissioni. Messo ai voti, per appello nominale, esso viene approvato con 21 voti favorevoli su 21 Consiglieri presenti e votanti. Tutti i 21 Consiglieri presentano le loro dimissioni scritte che si conservano in atti di cui qui si allega copia. Il Sindaco invita quindi il Consiglio a recarsi nella Sala della Giunta per dare attuazione a quanto deliberato dal Consiglio. La seduta viene dichiarata chiusa alle ore 19" (2).

Alle ore 8 del giorno 20 scatta lo sciopero generale. La cittÁ É tappezzata di manifesti e striscioni che rivendicano la permanenza del Distretto a Sulmona. I direttivi dei partiti politici e tre consiglieri provinciali eletti nel capoluogo peligno minacciano le dimissioni. A Palazzo San Francesco giungono 40 dei 65 sindaci dei comuni compresi nell'ambito territoriale del Distretto e, in solidarietÁ alla protesta sulmonese, si dichiarano pronti alle dimissioni insieme ai propri consigli comunali. Gli altri sindaci non intervenuti fanno giungere attestati di piena solidarietÁ. Giunge persino un messaggio dalla Curia Vescovile: Sua Eminenza Luciano Marcante, figura pastorale molto amata dalla popolazione sulmonese, deplora il provvedimento e lo definisce "odioso e inopportuno".

Lo sciopero va avanti compatto: un comizio di 5.000 cittadini si svolge nel pomeriggio a Piazza XX Settembre e sulla tribuna si succedono gli oratori di tutti i partiti politici, accomunati nella difesa appassionata di Sulmona e nella denuncia della costante rapina di uffici, fabbriche (solo una: la Montedison), di reparti ed uffici dell'esercito.

Le iniziative di lotta della giornata, comunque, non si limitano a questo: si decide, tra l'altro, di inviare una delegazione del comitato di agitazione al Prefetto. Questa risulta composta dal Sindaco Ercole Tirone, dal capo gruppo consiliare comunista Claudio Di Girolamo, da Antonio Trinchini, allora segretario del Partito Repubblicano, e dall'avvocato Giovanni Autiero, vice segretario provinciale della Democrazia Cristiana.

Dal Prefetto si ottiene il primo risultato di questa poderosa mobilitazione: il funzionario governativo dichiara che il provvedimento É stato sospeso e che ogni decisione viene rimandata all'incontro, da programmarsi, tra il Ministro Taviani ed una qualificata rappresentanza sulmonese.

é, perÔ, un trionfo di brevissima durata. In serata il sottosegretario alla Difesa, Bosco, telegrafa al Sindaco di Sulmona: "Notizia soppressione Distretto Militare Sulmona est destituita fondamento stop detto ente est stato assegnato quarta classe per motivi ordine tecnico che hanno imposto piano generale riorganizzazione Esercito stop come giÁ disposto con circolare ministro Taviani data 14 agosto trasferimenti personale civile che risultasse esuberante saranno esaminati con gradualitÁ e massima considerazione per legittimi interessi familiari stop". Seppure il personale civile del Distretto non deve piÝ scegliere la nuova residenza, É confermata in pieno la decisione del declassamento dell'organo militare. Il che equivale al suo trasferimento.

Di fronte al nuovo colpo di scena, lo sciopero generale viene prolungato di un giorno. E se il 20 agosto 1954 É stato un giorno di mobilitazione campale, il 21 É il giorno delle analisi critiche e dell'esame riorganizzativo per procedere ad ulteriori azioni di lotta. li Comitato di agitazione si spoglia della sua veste ufficiosa e si costituisce definitivamente in COMITATO DI DIFESA CITTADINA guidato dal dottor Giorgio De Monte e nella seduta a Palazzo San Francesco decide: "... che i consiglieri provinciali di Sulmona rassegnino le proprie dimissioni entro il 23 corrente; che il Consiglio Comunale ratifichi le dimissioni dei consiglieri presentate in data 19 qualora non venga revocato il provvedimento giÁ preso entro il 26; che vengano comunicate alle Amministrazioni dei 65 comuni del Distretto di Sulmona le decisioni adottate dal Comitato di Difesa Cittadino, incitandoli ad agire secondo quanto stabilito in occasione del convegno dei sindaci tenutosi a Sulmona; che i consiglieri provinciali di Sulmona confermino le loro dimissioni qualora non si verifichi la revoca del provvedimento del Ministro della Difesa"! E mentre continua la discussione su quanto sta accadendo, viene confermata la decisione di inviare la delegazione alla trattativa diretta con il ministro Taviani.

Nella discussione, al di lÁ della polemica e dello spirito campanilistico mai sopito nei confronti del capoluogo, viene messo in rilievo come l'atto amministrativo del declassamento del Distretto, oltre ad apparire iniquo e penalizzante in una situazione economico sociale giÁ compromessa, sia lapalissianamente inopportuno e contrario agli stessi interessi della Pubblica Amministrazione che lo ha posto in essere. Sulmona É, infatti, il baricentro di tutti i comuni, ben 65, che rientrano nella competenza territoriale del Distretto. Sottrarre, quindi, allo stesso alcune importanti funzioni, quale quella relativa alla selezione per la leva militare, poteva solo significare che nell'adottare la decisione si seguivano altri criteri di scelta, ma non quello della funzionalitÁ e dello snellimento burocratico.

Questo tipo di analisi É ben presente a tutti i protagonisti della vicenda, sulmonesi e non, tanto che presto viene ripreso dalla stampa che, di proprio, comincia ad aggiungere illazioni che appaiono tutt'altro che infondate. In una corrispondenza del "Tempo", datata 24 agosto, il redattore locale afferma che "a Sulmona circola insistente la voce che il nostro Distretto sarebbe stato colpito non per motivi di ordine tecnico o per ragioni di economia di bilancio, ma per interferenze e pressioni di carattere politico". In cosa consistano queste interferenze e queste pressioni lo deduce argomentando "a contrariis" lo stesso sindaco avvocato Tirone che, rispondendo ad un'intervista del corrispondente sulmonese del "Giornale d'Italia" che gli domanda tra l'altro fosse stato preferibile interessare il senatore o il deputato di Sulmona, afferma sdegnato: "quale senatore, quale deputato!? Sulmona non É rappresentata nÉ a Palazzo Madama, nÉ a Montecitorio". La risposta, con ogni evidenza, É allusiva; senza peli sulla lingua É, invece, 1'"UnitÁ" del 9 settembre dello stesso anno, che per la firma di Giuseppe Del Vecchio, afferma: "Immaginate, (É sempre facile rappresentarsi un fatto accaduto), che il provvedimento fosse giÁ stato preso, ma non contro Sulmona, bensÍ contro un'altra cittÁ italiana. In quella cittÁ c'erano papaveri dc alti, molto alti, i quali sono andati da S.E. il Ministro e dopo cordiale colloquio, il provvedimento per quella cittÁ É stato ritirato (che volete. . ., i voti, la minaccia del mo' parlo)". Sono troppo noti questi meccanismi di manovra clientelare per pensare che non siano stati attivati nel caso che colpisce Sulmona.

Ad ogni buon conto, da Roma vengono segnali secondo i quali, finalmente, il Ministro sembra disponibile alla trattativa. Con la serietÁ e la rappresentativitÁ che la circostanza richiede, viene messa su una delegazione solennemente capitanata dal Vescovo di Sulmona Luciano Marcante. Insieme al popolare patriarca vengono designati a rappresentare Sulmona presso il Ministro in primo luogo il sindaco, e poi, via via, il dottor Torinto Sciuba e l'avvocato Giovanni Autiero per la Democrazia Cristiana, il dottor Giorgio De Monte per il Partito Socialista del Lavoro Italiano (il PSLI di vecchia memoria), il dottor Claudio Di Girolamo per il Partito Comunista Italiano, il cavalier Serafini per il Partito Socialista, l'avvocato Giuseppe Masci per il Movimento Sociale, la Vedova della Medaglia d'Oro Enrico Giammarco, il professor Antonio Trinchini per il Partito Repubblicano e, 'last but not least', il commendator Paolo Di Bartolomeo per l'Associazione Commercianti. Si decide che a Roma tale delegazione debba essere integrata dalle rappresentanze dei partiti presenti nella commissione parlamentare della Difesa.

Il drappello parte munito di un minaccioso viatico: un telegramma inviato al Ministro della Difesa, a quello degli Interni e al Prefetto di L'Aquila, nel quale il Comitato di Difesa Cittadina riporta quanto giÁ stabilito a proposito delle dimissioni dei consiglieri comunali e provinciali di tutta la zona, ma corredato da un "cappello" di tal fatta: "Dopo comunicazione telegrafica Ministero Difesa Comitato respinge provvedimento adottato danni distretto Sulmona et decide..." con quel che segue; inoltre, per il mezzogiorno del 24, data dell'incontro con il Ministro, si decide di attuare uno sciopero generale cittadino di 15 minuti, a ricordare che si vigila.

La notizia dell'incontro É giunta a Sulmona dopo due giorni di sciopero generale, il 21, e l'azione viene sospesa. La cittÁ vive due giorni interlocutori, mentre sulla stampa nazionale si propaga l'eco dell'impari braccio di ferro.

La delegazione parte il 24 agosto, di buon mattino, alla volta della capitale, ma É solo a tarda sera che viene ricevuta dal Ministro, e non al completo: ottiene il "passi" solo il Sindaco Tirone, che viene nell'occasione inopinatamente accompagnato dagli onorevoli Enrico Giammarco, democristiano, Luigi Di Paolantonio, comunista, Iorio, socialista, Lorenzo Natali, democristiano eletto in quel di L 'Aquila, ed infine il segretario provinciale della democrazia cristiana aquilana, Fracassi.

Il colloquio con il ministro si protrae fino a pochi minuti oltre la mezzanotte e solo dopo aver parlato con "quelli che contano", Taviani si concede alla vedova della medaglia d'oro, all'anziano pastore ed ai politici di rango... locale.

Quale il risultato dell'incontro? Il "Tempo" del 25 agosto titola in prima pagina: "Il Distretto di Sulmona non verrebbe piÝ abolito" e nel piombo che segue riporta che il Ministro non ha avuto la benchÉ minima intenzione di offendere una tale e nobilissima cittÁ, che il provvedimento "offensivo" formerÁ oggetto di approfondito e scrupoloso riesame e lascia intendere che per il momento, forse, soprassiederÁ.

E questa É la novella che la delegazione riporta da Roma. Ma il tutto non convince; si ha il sospetto che il ministro abbia venduto aria fritta ai "delegati" e, in questo clima particolare nel quale si avverte l'inganno nell'aria, pur non avendone le prove dirette, i consiglieri comunali si vedono costretti a non poter rendere esecutive le proprie dimissioni, mentre quelli provinciali, contravvenendo al disposto del Comitato di Difesa, la tirano per le lunghe e solo dopo un'azione di forza in un dibattito lungo e a dir poco vivace, vengono convinti a dimettersi, salvo poi a far votare o meno la ratifica. La doccia fredda giunge, perÔ, quando nei giorni successivi si diffonde la voce che Taviani ha rilasciato dichiarazioni poco rassicuranti sulla esecutivitÁ del provvedimento di soppressione che, per calmare i bollenti spiriti, sarebbe stato solo congelato invece che ritirato.

Questa notizia É una bomba in casa democristiana. E' certo che deve essere scoppiata una lite furibonda della quale all'esterno giungono solo gli echi. Intanto viene fuori il caso del consigliere Incani che testardamente rifiuta di dimettersi dalla sua carica provinciale. Secondo 1'"UnitÁ", l'esponente democristiano si sarebbe reso irreperibile allo scopo meditato di non dimettersi. Inoltre, sempre su "L'UnitÁ" del 31, il corrispondente a sigla a.l.c. afferma che alcuni influenti dirigenti si sono dimessi dalle cariche di partito per i contrasti sorti tra loro, non soltanto per la questione del Distretto, "ma per una altra serie di motivi che riguardano il sistema demagogico, di parte, di cricca, di dirigere le sorti del comune, di affrontare i problemi locali". Una conferma di quanto accaduto trova inoltre riscontro in un giornale vicino alle posizioni democristiane, il "Momento Sera", in una corrispondenza dello stesso giorno; vi si afferma che "... le giÁ note dimissioni dei consiglieri provinciali, ed alcune voci, sia pure incontrollate che riguardano il partito di maggioranza ed i suoi uomini, servono a far comprendere come il fuoco seguiti a covare sotto la cenere...". Quello che conta, perÔ, É il segnale, non in tutto nitido, che possiamo ricavare da alcune lettere che si incrociano tra i segretari locale e provinciale della DC ed il Sindaco Tirone. Quest'ultimo deve aver debordato dalla linea fissatagli dalla direzione democristiana sulmonese; non solo, ma per ragioni sulle quali non É stato possibile far luce, deve avere accuratamente evitato di far parte di determinate sue attivitÁ i dirigenti locali. Tanto si puÔ desumere da due lettere, una del segretario sulmonese della DC dottor Torinto Sciuba, ed un'altra del vicesegretario provinciale, avvocato Giovanni Autiero, tutte e due indirizzate al Sindaco Tirone nella stessa giornata, nelle quali abbondano severissimi richiami all'ordine. Queste lettere precedono l'improvviso esplodere della crisi del Distretto. Il Sindaco viene accusato di non aver agito secondo le direttive discusse ed approvate in precedenti riunioni. Tirone, quindi, caratterizza con iniziative personali la linea di condotta adottata da]la Democrazia Cristiana; e ciÔ accade, forse, per la sua duplice veste di amministratore e dirigente politico.

Una terza lettera, invece, illustra al di lÁ di ogni dubbio il clima dei rapporti interni alla Democrazia Cristiana. é del segretario provinciale Fracassi ed É indirizzata a tutti i dirigenti locali e, per conoscenza, al segretario nazionale del partito Amintore Fanfani. La lettera contiene un invito agli "amici" a ritirare le dimissioni per disciplina di partito. Siamo al 3 settembre. Dalla stampa si É appreso, come abbiamo giÁ detto, che Taviani ha rilasciato dichiarazioni che non vanno esattamente nel senso della sospensione del provvedimento relativo al declassamento del Distretto. Di qui un ultimo incrudimento della crisi interna della DC Molti, ad esempio il vice segretario provinciale, l'avvocato Giovanni Autiero, si dimettono addirittura dal partito.

La situazione É talmente grave al suo interno che la Democrazia Cristiana commette una gaffe: assicura in prima persona che il Distretto sarebbe rimasto a Sulmona. Questa assicurazione viene fatta attraverso un manifesto alla cittadinanza. é chiaro che la inopinata sortita DC sorprende gli altri partiti ed il Comitato di Difesa Cittadina. La crisi del Distretto, per unanime accordo delle forze politiche, avrebbe dovuto essere gestita in maniera unitaria, tanto che si era fatto ricorso ad un comitato di salute pubblica. L'assicurazione democristiana esce fuori da questo quadro, dagli schemi sui quali É stata costruita l'azione di lotta e sembra, perciÔ, non avere alcun senso. Invece, lungi dal non avere un senso, il manifesto della Democrazia Cristiana É uno dei pochissimi momenti nei quali traspare con chiarezza che dietro alla strenua difesa del Distretto si nasconde una lotta interna delle correnti democristiane che va ben al di lÁ del dato in sÊ. Gli altri partiti e l'intjera cittÁ se ne rendono conto, ma non possedendo elementi di conoscenza rimangono impotenti di fronte alla crisi democristiana; impotenti e confusi, incerti sul da farsi. é questo lo stato d'animo con il quale il Comitato di Difesa Cittadina risponde al manifesto democristiano: si prende atto di quanto affermato e si lascia alla completa responsabilitÁ di chi ha effettuato quelle dichiarazioni la rispondenza delle stesse al vero.

E dagli scontri interni tra democristiani sulmonesi si passa a quelli tra sulmonesi ed aquilani effettuati al massimo livello di rappresentativitÁ. I due Sindaci di Sulmona e di L'Aquila mettono in piedi una garbata nella forma, ma dura nella sostanza, polemica epistolare. "Caro ed illustre amico, É l'incipit della lettera del Sindaco aquilano il mio Segretario Generale, dr. Carlomagno, mi comunica il tuo disappunto, per essere mancata fino ad oggi la solidarietÁ della mia CittÁ, nella delicata, spinosa e veramente dolorosa questione del Distretto". Si continua, poi, affermando che sarebbe stato possibilitÁ mostrarsi solidali con la disgrazia di Sulmona se i suoi cittadini non avessero attaccato polemicamente la cittÁ capoluogo ed il suo personale politico. La lettera continua ponendo il quesito che qui di seguito riassumiamo: posto che in Abruzzo il Distretto dovesse essere solo uno, dovendo si scegliere tra l'Aquila e Sulmona, i "parlamentari" aquilani avrebbero dovuto non interferire ed addirittura tenere per Sulmona, secondo i desiderata del Comitato di Difesa Cittadina? Anche "L'Aquila ha i titoli per conservare il suo Distretto Militare, istituito qui fin dal 1871". Purtuttavia, si precipita a sostenere il Sindaco aquilano, non É stata messa in cantiere "nessuna azione per togliere ad altri ciÔ che É sempre stato di altri (e difatti nessun passo, in nessun senso É stato fatto, neppure in nostra difesa) e, anzi, pieno consenso a che Sulmona sia contentata nella sua nobile e legittima aspirazione".

Da questa lettera traspare un misto di arroganza e diplomazia che alla fine sembra dire: ognuno usi i mezzi che ha, e chi piÝ ne ha, piÝ ne metta. Tirone non perde tempo nel rispondere; la sua lettera É pacata e forse, al di lÁ della retorica, lungimirante. In essa si afferma che non si É fatto campanilismo nel reagire al provvedimento di declassamento. Se qualche punta polemica c'É stata, non É certo venuta della maggioranza della popolazione che, anche in questa occasione, ha invece lottato, come sempre, per far avanzare tutta la Regione "in colleganza con codesta CittÁ e con la volontÁ di non indietreggiare o di segnare il passo nel dinamico ritmo della vita moderna (...). Appunto attraverso questa colleganza del Capoluogo con gli altri paesi della provincia, di questa con le altri Provincie consorelle, si puÔ arrivare a costituire, come un blocco monolitico, quella saldezza di propositi, premessa indispensabile per la elevazione spirituale e materiale dell'Abruzzo".

A prima vista, quindi, intuizione regionalistica ed eventuale composizione, in quest'ottica, dei campanilismi che vengono cosÍ sublimati in una visione di cooperazione e solidarietÁ "materiale e spirituale". In realtÁ le due lettere si prestano ad un'altra lettura. Mentre quella del Sindaco Colagrande, liberata dai fronzoli delle frasi di circostanza, afferma: non prendertela, siamo i piÝ forti ed i nostri rappresentanti al Palazzo ci proteggono; quella del Sindaco Tirone risponde: guarda che gli interessi del Partito non si fermano a L'Aquila ma riguardano tutta la Regione e non É escluso che facendo anche gli interessi di Sulmona possa trarne giovamento tutto il partito.

In ogni caso questo scambio di lettere chiude questa prima fase della rivolta borghese di "Jamm' mÔ", o meglio il primo atto della parte borghese della rivolta. La maretta in casa democristiana viene ricomposta, nonostante le dolorose perdite; il Distretto di Sulmona viene declassato, nonostante il can can imbastito sulla questione; i consiglieri comunali e provinciali ritirano le dimissioni ed il Comitato di Difesa Cittadina entra in letargo, sebbene non disarmi, pronto a mobilitarsi di fronte ad un nuovo pericolo. La situazione si blocca e per il momento la questione del Distretto sembra addormentarsi.

 Note:

(2) E la costituzione del Comitato di Difesa Cittadina?

 

jamm04.jpg (133005 byte)

IL GIORNO DELLA TALPA SULMONESE

 

Dal settembre del '54 fino al maggio del '55 la querelle del Distretto rimane in sospeso. Ma a metÁ maggio il Colonnello comandante il Distretto viene trasferito a Pesaro. Nell'immediato questo fatto non preoccupa nessuno, ma il personale civile dell'organo militare nota che l'ufficio di comandante rimane vacante per un periodo piÝ lungo di quello che deve ritenersi normalmente fisiologico nell'avvicendamento della carica.

Viene informato il Sindaco. Questi, dopo alcuni giorni di attesa ed in presenza di un ennesimo scontro interno al suo partito, con il timore di un imminente ed improvviso trasferimento del Distretto, salta a pie' pari tutti i gradi intermedi della gerarchia clientelare statale e bussa direttamente alla porta del Ministro Taviani. Gli invia una lettera allarmata ed allarmante: "in tutti gli ambienti responsabili della cittÁ si nota un diffuso e preoccupante malcontento". Nella minuta dattiloscritta si legge un'annotazione, aggiunta a mano successivamente alla prima stesura (e forse per questo non sin tatticamente collegata in maniera corretta con il testo) che, riferendosi alle voci di trasferimento del Distretto, recita testualmente: "se non tempestivamente contenute o allontanate potrebbero nuovamente sfociare in : (parola illeggibile, n.d.r.) agitazioni"!

Nella lettera, inoltre, l'avvocato Tirone continua ricordando elegantemente al Ministro le promesse di sospensione sine die del provvedimento sottolineando, tra l'altro, che "questa Civica Amministrazione (: ) anche sotto il profilo politico, ha interesse che le cose restino immutate ...". Ma il Ministro non risponde e sembra non darsene per inteso. Nell'agosto successivo una parte dello scaglione di leva classe 1934, i ritardatari per essere piÝ precisi, viene inviato a L'Aquila per la rituale visita di selezione che avrebbe dovuto svolgersi a Sulmona. é un altro segnale che non viene colto, perÔ, nella sua reale portata. Non ci si rende conto che la sorte del Distretto É ormai segnata giÁ dal declassamento dell'anno precedente. Se gli uffici rimangono ancora in Sulmona lo si deve unicamente al fatto che il Ministro ha adottato una tattica dilatoria tesa ad attuare il trasferimento del Distretto nel momento piÝ opportuno, dopo aver fatto gradualmente sbollire la rabbia dei politici democristiani sulmonesi.

Ritenendo che qualcosa possa essere ancora salvato, nella data del 21 agosto il Sindaco Tirone scrive di nuovo a Taviani. E questa volta il tono della lettera É piÝ allarmato della precedente, sebbene gli elementi sui quali É costruita non siano molto cambiati dall'altra. Tirone torna a ricordare le promesse fatte, la crisi comunale e offre al Ministro la possibilitÁ di tornare indietro sul provvedimento di declassamento, attribuendone la paternitÁ ad un errore tecnico compiuto dall'AutoritÁ Militare. Il Sindaco tocca, inoltre, il tasto della mobilitazione popolare alludendo ad un comizio del "Partito Socialista Nenniano" nel quale si era parlato dell'allontanamento del Distretto e delle responsabilitÁ democristiane al riguardo e chiude facendo balenare il pericolo per il quale i provvedimenti se attuati "troverebbero un clima favorevole per nuove agitazioni e nuove accuse alla Giunta Comunale e alla Democrazia Cristiana".

Il Ministro non risponde nemmeno a questa lettera. Al contrario, alcuni giorni dopo, Tirone, attraverso un suo confidente, viene a conoscenza dell'imminente precipitare della situazione. In una mattina dei primissimi giorni di settembre, nel suo studio a Palazzo San Francesco, il Sindaco riceve una velina: la soffiata di una talpa del Ministero della Difesa, che si trascrive qui di seguito integralmente: "Questa comunicazione deve rimanere segreta per non nuocere al mio informatore. Il Distretto Militare di Sulmona, declassato, il giorno 12 corrente, con automezzi del 46œ Fanteria, dovrÁ avviare al DM. di L'Aquila tutto il carteggio e materiale. La nostra cittÁ non dovrÁ subire supinamente, dopo le promesse, questa ingiustizia, approfittando della crisi comunale. Mobilitate i Comuni et Comitato d'Azione. - De Chirico Donato".

é doveroso avvertire che le ricerche effettuate per accertare la veridicitÁ del contenuto di questa soffiata non non hanno dato alcun esito, cionondimeno va sottolineato che la velina É stata rinvenuta nell'Archivio del Comune di Sulmona, conservata insieme ad una lettera che il Sindaco scrisse precipitosamente a Fanfani, allora Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana e di cui si parlerÁ tra poco; inoltre É stato trovato un riscontro indiretto sulla stampa locale in una corrispondenza del "Messaggero" di alcuni giorni piÝ tardi. é evidente che il Sindaco Tirone ha mostrato il documento al corrispondente del quotidiano, o quanto meno gliene ha parlato, considerandolo perciÔ degno della massima fede. Senza nessuno sforzo si puÔ fare affidamento sulla veridicitÁ del documento e se non bastassero le considerazioni appena esposte, ne soccorre un'altra che, si ritiene, É decisiva. Appena ricevuta la soffiata, Tirone scrive altre due lettere; una di nuovo a Taviani, ed É la terza nel giro di un mese e mezzo, l'altra al segretario nazionale del Partito, Amintore Fanfani. Tirone non si sarebbe risolto a scrivere queste due lettere se non in base a serie e motivate ragioni.

A Taviani il Sindaco, questa volta, si rivolge in maniera fredda e distaccata; sembra quasi piegarsi malvolentieri al compimento di un atto dovuto, ma nel quale non confida affatto. Pure, inghiottendo amaro, scrive, non rinunciando a sua volta a piazzare una botta mancina. Chiede, infatti, il rinvio sine die della soppressione del Distretto perchÊ un tale provvedimento avrebbe nuociuto alla campagna elettorale, ormai imminente, per il rinnovo dell'amministrazione locale. Il Sindaco, immaginiamo con malizia piena di risentimento, chiede per sÊ stesso e per la Democrazia Cristiana quella "tranquillitÁ necessaria per riordinare le proprie forze in vista delle prossime elezioni amministrative ed alla Giunta la possibilitÁ di continuare la sua improba fatica".

La seconda lettera, quella indirizzata a Fanfani, É una conseguenza diretta dei fallimenti precedenti "collezionati" nel chiedere l'intervento favorevole di Taviani. Se il Ministro É insensibile alle richieste di un poco titolato Sindaco di una cittÁ della provincia, ben altro peso debbono avere i desiderata di un segretario politico nazionale della taglia di Fanfani, sensibile, in virtÝ della sua carica, alle sorti elettorali della DC in qualsiasi parte del paese. Ed a lui Tirone si rivolge nei termini seguenti: "Eccellenza, con mio sommo rammarico ho dovuto constatare attraverso vari sintomi, come la questione attinente al declassamento di questo Distretto si sia ripresentata di nuovo, proprio in questo momento in cui questa Amministrazione, uscita da una crisi di risonanza nazionale, sta riprendendo lena per affrontare, col solito ardore, la soluzione di tutti i gravi problemi cittadini posti sul tappeto. I provvedimenti di che trattasi hanno giÁ provocato gravi risentimenti nella opinione pubblica di questa cittÁ e dei numerosi paesi che a questo distretto fanno capo. Se adottati in questo periodo, comprometterebbero in pieno la campagna elettorale amministrativa di prossimo inizio, con le conseguenze poco simpatiche che ne deriverebbero. ? quindi anche nell'interesse del Partito, oltre che della CittÁ di Sulmona, che i provvedimenti del genere vengano rinviati sine die e pertanto confido in un suo intervento che valga a scongiurare tanta jattura. Con distinti ossequi, il sindaco di Sulmona, avvocato Ercole Tirone".

Lettere dello stesso tenore vengono inviate ad altri autorevoli esponenti della Democrazia Cristiana; ma la data indicata nella soffiata non tranquillizza certo il Sindaco.

Il tempo a disposizione É minimo, le risposte alle sue pressioni non sono certo sollecite e quindi, trascorsi tre giorni dall'invio delle lettere, inopinatamente il silenzio stampa viene rotto e sul "Messaggero", in pagina locale, appare un "pezzo" non firmato che riporta gli ultimi avvenimenti relativi alla vicenda del Distretto, dal trasferimento del Colonnello comandante al dirottamento verso L'Aquila dei ritardatari dello scaglione del '34 per la visita di leva; non si fa cenno della "talpa" nÊ dell'attivitÁ del Sindaco rivolta a premere nei confronti dei massimi notabili del suo partito. E', perÔ, evidente che ispiratore dell'articolo se non É lo stesso Sindaco, É senz'altro qualche esponente del suo entourage. In ogni caso nella stessa giornata si ricostituisce il Comitato di Difesa Cittadina e a sera questa organizzazione, lo stesso Sindaco ed un "amico" di Natali inviano telegrammi a Taviani, al Prefetto di L'Aquila e al potente esponente democristiano, all'epoca sottosegretario al Ministero dell'Informazione.

Nelle minute dei telegrammi sono annotate la data e l'ora dell'invio: 10 settembre ore 21,30. Quello del Sindaco al Prefetto di L'Aquila dice: "Compio dovere informarla che nuova minaccia esecuzione declassamento Distretto est causa perturbamento et agitazioni stop Ricostituito Comitato Difesa Cittadina Stop". Quello del Comitato di Difesa Cittadina, sempre al Prefetto, É piÝ minaccioso: "Cittadinanza sulmonese indignata iniziata attuazione declassamento Distretto Militare stop Minaccia immediata ripresa gravi agitazioni stop Invocasi pronto intervento Vostra Eccellenza presso Ministro Difesa". A Taviani invece il C. di D.C. manda a dire, dopo un cappello identico a quello mandato al Prefetto: "invocasi mantenimento assicurazioni precedentemente date". Infine Di Filippo (4) telegrafa a Natali: "Nuova minaccia declassamento Distretto Militare ridesta emozioni et agitazioni stop invocasi tuo pronto fraterno intervento".

Il contenuto dell'articolo del "Messaggero" non É cosi allarmante da determinare una reazione tanto accesa, eppure il tono dei telegrammi fa supporre una situazione molto piÝ calda di quanto effettivamente non fosse. Molto probabilmente, sia l'articolo che i telegrammi fanno parte del momento tattico di una strategia messa a punto dal Sindaco e dai suoi amici di partito, che nell'occasione prende a pretesto gli interessi della campagna elettorale amministrativa, da non compromettere con il trasferimento del Distretto, ma che rientra nel piÝ generale braccio di ferro tra il gruppo democristiano sulmonese e quello aquilano per l'acquisizione di strumenti di potere, come si É accennato nell'introduzione. Ed in questo senso il telegramma del "nataliano" al capo-corrente, piÝ che tendente ad ottenere il suo interessamento alla vicenda sulmonese svolge la funzione di un preciso segnale. Diversamente sarebbe difficile immaginare un uomo del Palazzo Romano che, contro gli interessi del suo collegio elettorale, favorisce clientelarmente un'altra realtÁ che, anche se appartenente allo stesso partito, mostra una vocazione a costituire un centro di potere autonomo ed in concorrenza con quello aquilano.

L 'articolo del "Messaggero" innesca, perÔ, il meccanismo della mobilitazione popolare. La cittÁ non É uno strumento passivo e le altre forze politiche non stanno certo a guardare. Il molto tempestivamente risorto Comitato di Difesa Cittadina dÁ una scossa all'opinione pubblica mediante l'affissione di manifesti. Nel frattempo la stampa annuncia che il provvedimento di soppressione del Distretto Militare di Udine, che come Sulmona avrebbe dovuto scomparire, É stato revocato. E. la prova provata che per Sulmona manca la volontÁ politica di fare altrettanto. Il clima comincia ad arroventarsi di nuovo e viene sollecitata la mobilitazione anche dei paesi del circondario.

Ma proprio quando il crescendo della mobilitazione popolare sta per trovare uno sbocco, al Sindaco giunge una lettera del Segretario particolare di Natali, il dottor Stanislao Pietrostefani, nella quale si avverte che il Sottosegretario ha provveduto a interessarsi della vicenda e, tenendosi in stretto contatto con il Ministero della Difesa, ha ottenuto assicurazioni che per l'immediato verranno evitati provvedimenti definitivi: e ciÔ, dice la lettera, "perchÊ Lei possa contribuire a quella distensione dell'opinione pubblica oltremodo necessaria in Sulmona in questo particolare momento". La battaglia per il momento É vinta. La battaglia, non la guerra.

Ma di questa lettera praticamente risolutrice della crisi aperta con la soffiata della "talpa", negli ambienti politici cittadini esterni alla Democrazia Cristiana non trapela nulla. Il Sindaco torna ad occuparsi dei non pochi problemi amministrativi mentre nella cittÁ i muri continuano ad essere tappezzati da manifesti d'allarme e di protesta mentre sui giornali prosegue la campagna stampa.

Ad un certo punto, come nella crisi precedente dell'agosto del '54, riaffiora la sensazione che il provvedimento del Distretto non É stato revocato ma solo sospeso perchÊ le competenti autoritÁ si sono trovate nel reale imbarazzo della scelta del momento piÝ propizio per attuarlo. In piÝ cominciano a verificarsi fughe di notizie ed alle orecchie dell'opinione pubblica cittadina giunge sussurrata, ma giunge, la notizia che il Distretto stava per essere trasferito. Leggiamo dal "Messaggero": "... il provvedimento di sospensione non solo non stava per essere revocato, bensÍ stava per essere attuato. Tutto questo stava per accadere malgrado le non equivoche assicurazioni che esponenti locali avevano, sotto la propria responsabilitÁ, fornite, dichiarandosi non autorizzate a rivelarne la fonte e senza l'appoggio di alcun documento". Ed il riferimento al "documento della talpa" É trasparente, ma solo per chi ne ha avuto conoscenza.

In ogni caso, nonostante l'agitazione cittadina, al 20 settembre tutti i giochi sono stati di nuovo chiusi. PiÝ che la protesta popolare, un ruolo fondamentale in questa crisi l'hanno giocato le elezioni amministrative e la paura da parte della Democrazia Cristiana di compromettere ulteriormente la sua stabilitÁ interna con un rovescio elettorale.

Questo fatto, perÔ, a Sulmona É conosciuto da pochi. E per questo, dopo le ultime schermaglie, la faccenda del Distretto si stempera in altre che riguardano diverse, ma non per questo meno accese, battaglie politiche interamente cittadine.

Del Distretto si tornerÁ a parlare nel gennaio del '56, ma solo nei ristretti circoli dirigenziali democristiani. Infatti dalla Direzione di Piazza del GesÝ in Roma, e precisamente dall'Ufficio Centrale Enti Locali, l'onorevole Salizzoni, responsabile del settore, invia al Sindaco la copia di una lettera nella quale il sottosegretario del Ministro della difesa, l'onorevole Bovetti, gli comunica che, sebbene il Distretto di Sulmona sia stato declassato sin dal 14 agosto del '54, non si É giunti all'attuazione del provvedimento in relazione a considerazioni di politica locale:

Questa lettera chiude la crisi del '55 e per tutto il '56, o meglio fino al dicembre del '56, a Sulmona di trasferire il Distretto non si parlerÁ. Nel maggio ci saranno le amministrative.

Note:

(4) Si tratta probabilmente del Prof. Ottavio Di Filippo, esponente della DC sulmonese a livello provinciale (nota dei curatori).

 

 

 

jamm05.jpg (79340 byte)

LA BEFFA DEL 'KOMMANDO' NOTTURNO

Le elezioni amministrative del maggio '56 comportano il cambio a Palazzo San Francesco: sulla cattedra del sindaco al democristiano Tirone succede il liberale Mazara, marchese e gentiluomo, eletto dalla lista civica Campanile e Cupola. I dirigenti democristiani locali, siamo nel pieno degli anni 50, affidano la summa del potere locale ad un laico, eppure nessuno avrebbe avuto nulla da dire se la carica fosse rimasta nelle mani di un DC. Vero É che in quella tornata elettorale la Democrazia Cristiana subÍ un rovescio nemmeno lontanamente paragonabile a quello subito nel 75-76: dal 1951 con 5.300 voti, pari al 46.12% e con 18 consiglieri, maggioranza ampiamente assoluta, passa nel maggio '56 a 3.310 voti, 27.9%, con 9 consiglieri. CiÔ si spiega con la nascita dal fianco della DC locale del gruppo 'Coltivatori Diretti La Vanga' che le strappa 3 consiglieri e del gruppo Coltivatori Diretti Indipendenti con un seggio; inoltre entrano in consiglio per la prima volta le destre con i 2 seggi del Movimento Sociale, mentre la lista civica 'Campanile e Cupola' da un solo seggio ne conquista tre. Scompaiono altre liste locali, il Partito Comunista passa da 3 a 4 seggi ed il Partito Socialista da 4 a 7. Questo terremoto si spiega essenzialmente con il crollo verticale della Democrazia Cristiana, dovuto alla lotta intestina e all'andamento delle crisi del '54 e '55 relative alla lotta interna sottesa a quella della soppressione del Distretto. Questi due fattori in realtÁ sono riconducibili, per quanto giÁ detto nell'introduzione, ad un unica causa: la mancanza, all'interno della Democrazia Cristiana di Sulmona, di un leader indiscusso che avesse raccolto attorno a sÊ, come era accaduto per L'Aquila e Pescara, la maggioranza degli 'amici'. Questo per un verso avrebbe significato avere un rappresentare in Parlamento, con tutto quel che segue quanto ai finanziamenti pubblici e, per l'altro, avrebbe impedito grossi conflitti interni capaci di smembrare la forza elettorale locale della DC.

Anche cosÍ malridotta la Democrazia Cristiana avrebbe potuto chiedere per sÊ il Sindaco. L'integralismo di questo partito all'epoca viveva una stagione floridissima e la sua egemonia nei confronti dei suoi ,alleati minori era un fatto indiscusso. Ma viene eletto sindaco il Marchese Mazara, un gentiluomo non compromesso da giuochi di potere, al di sopra delle parti, ma soprattutto liberale, e quindi non democristiano. Questa qualitÁ, lapalissianamente enunciata, É risultata alla luce dei fatti successivi, eminentemente utile proprio alla Democrazia Cristiana, tanto che puÔ sorgere fondato il sospetto che la scelta di affidargli la prima carica cittadina non sia scaturita dalla logica dei risultati elettorali, bensÍ da un preciso disegno del gruppo dirigente locale della Democrazia Cristiana.

Del Distretto Militare di Sulmona il nuovo Sindaco Panfilo Mazara si occupa ufficialmente nella seduta segreta del consiglio comunale convocata per il 15 dicembre del 1956.

Nell'autunno del '56, discretamente, le autoritÁ militari sulmonesi, per il tramite del colonnello Sessich, comandante del 46œ reggimento di Fanteria, offrono al governo cittadino, come contropartita per la perdita del Distretto, l'insediamento in loco degli uffici del magazzino del reggimento. L'offerta viene ribadita al Sindaco Mazara dai generali Cassini e Mellani nella cornice mondana della festa del reggimento, tenuta il 17 dicembre. Il primo cittadino di Sulmona respinge l'offerta anche su precedente mano dato del Consiglio comunale che nella seduta dei due giorni antecedenti l'aveva esaminata e respinta. Non ottengono nessun risultato neppure le richieste di benevolo interessamento avanzate dal Sindaco, nella stessa occasione, al Capo di Stato Maggiore del Comiliter di Roma, intervenuto anch'egli alla festa del reggimento. E questo sembra l'ultimo tentativo di comporre bonariamente la questione compiuto dal Governo Nazionale. Tentativo compiuto per interposta persona attraverso le AutoritÁ Militari.

Il 1957 comincia con un cattivo auspicio: un amico, infiltrato nel Palazzo Romano, come la talpa del '55, in "linea riservatissima" annuncia al Sindaco Mazara che "qualcosa di grave si sta tramando circa la soppressione del Distretto Militare di Sulmona". Di nuovo, sull'esempio di quanto giÁ compiuto nella precedente evenienza dal Sindaco Tirone, vengono inviati telegrammi a Taviani e al Comiliter nei quali, con una certa disperazione, si chiedono smentite ed interventi atti a rivitalizzare l'ormai agonizzante struttura militare sulmonese, senza comandante dal maggio del '55. Come nelle precedenti crisi viene riattivato il Comitato di Difesa Cittadina ed alla sua testa viene posta un'altra figura discendente dai Jombi nobiliari di una vecchia casata sulmonese, qualificata ulteriormente dal fatto di essere un alto ufficiale a riposo: il colonnello Francesco Sardi De Letto.

Sotto la sua guida il Comitato adotta una strategia di sapore decisamente militare, tatticamente frazionata in tre tempi e di intensitÁ proporzionalmente crescente: il primo tempo É quello giÁ sperimentato nelle precedenti occasioni. Si ricorre direttamente agli organi competenti dello Stato cercando di "impietosirli" attraverso l'esibizione delle precarie condizioni economico-sociali della popolazione peligna e del circondario della Vallata; di fronte all'insuccesso di tale azione si accede al secondo tempo, passando all'azione popolare consistente in una mobilitazione massiccia delle masse della cittÁ e del circondario in uno sciopero generale; e quando anche tale stadio della lotta non avesse condotto a risultati positivi, allora si sarebbe dato il via al terzo tempo, alla forma di lotta piÝ dura che un "borghese" avrebbe mai potuto concepire, cioÉ la disobbedienza civile radicalizzata all'estremo: dimissione da tutte le cariche pubbliche, elettive e rappresentative, ricoperte a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, da cittadini sulmonesi; non ripresentazione delle liste elettorali ed infine rifiuto di pagare le tasse.

Forte della precedente esperienza, ed elaborata tenendo conto proprio dei fallimenti di quella, la strategia dei tre tempi viene aperta con le solite 'petizioni' alle autoritÁ dello Stato. Come al solito non si ottiene nulla, anzi si acquisiscono maggiori certezze sulla prossima soppressione del Distretto. Il Comitato di Difesa Cittadina viene a conoscenza di una circolare ministeriale attuativa della soppressione del Distretto che sarebbe stata addirittura firmata direttamente dal Ministro in data 15 gennaio 1957.

Nello stesso giorno in cui si viene a conoscenza di questa circolare, il Comitato di Difesa Cittadina, riunito d'urgenza, approva un ordine del giorno che nella sua parte finale cosÍ recita: "Il Comitato di Difesa Cittadina ( :) protesta nel modo piÝ fiero per questa nuova ed ingiusta minaccia di spoliazione, in palese dispregio degli interessi nazionali e locali, INVITA le popolazioni dei centri interessati ad esprimere la loro indignazione ed affiancare questo Comitato nella attivitÁ che andrÁ a svolgere in difesa del comune interesse e del comune prestigio, e tutti i partiti ad operare sollecitamente ed efficacemente affinchÊ mobilitino le proprie forze in difesa di questa giusta causa e PONE IN ATTO i legittimi movimenti per salvaguardare il prestigio e l'esistenza di Sulmona e del suo vasto territorio".

é il primo tempo della strategia patrocinata da Sardi De Letto. Viene richiesto l'intervento del Vescovo, Luciano Marcante, del Prefetto di L'Aquila, dottor Ugo Morosi, ed infine dei deputati abruzzesi di tutti i partiti. Ma il vecchio prelato sulmonese, ricordando la penosa ed umiliante anticamera subita nel '54 dinanzi alla porta di Taviani, piÝ che l'assenso, la solidarietÁ alla causa ed una benedizione, non puÔ offrire; il Prefetto manifesta chiari segni di fastidio alle, per lui, petulanti richieste dei notabili sulmonesi, ed i parlamentari abruzzesi, quelli che contano, perchÊ gli altri non manovrano nella stanza dei bottoni al Palazzo, alla fin fine sono stati eletti in altri collegi e non intervengono certo a favorire Sulmona per produrre un danno ad. interessi consolidati e tutelati nei loro terreni di caccia.

Il clima percepito dai componenti del Comitato di Difesa Cittadina nello svolgere questo primo tempo della mobilitazione ha un che di minaccioso e, senza por tempo in mezzo, in anticipo rispetto alla scaletta dell'azione, si passa al secondo tempo della strategia.

Il 18 gennaio, mentre da una parte il Comitato di Difesa Cittadina convoca per le 17 del giorno successivo un pubblico comizio di protesta da tenersi, data la stagione, presso il Teatro Comunale, quasi contestualmente alla convocazione il Sindaco Mazara riceve dal Prefetto Morosi la diffida a concedere la struttura pubblica agli organizzatori della agitazione. La diffida trovava appiglio nel regolamento interno sull'uso del Teatro che non prevedeva la concessione dello stesso per manifestazioni del genere. Il Sindaco non se ne dÁ per inteso, concede l'uso del Teatro al Comitato di Difesa Cittadina e convoca, in seduta straordinaria, il Consiglio Comunale alle 19 dell'indomani per discutere gli ultimi eventi.

é ormai guerra aperta se non dichiarata. Proprio perchÊ ormai questo dato É entrato nella coscienza di tutti i protagonisti, il Comitato di Difesa Cittadina non si limita a convocare il comizio, ma lancia la parola d'ordine dello sciopero generale ad oltranza indicandone tutte le modalitÁ di svolgimento. Riassumendo, dal documento del Comitato si evince che devono scendere in sciopero "tutte le categorie, FINO A NUOVO ORDINE, con l'esclusione dei sanitari, degli ospedalieri, dei farmacisti, dei panificatori e dei ferrovieri"; da queste categorie, perÔ, si attendono ugualmente le rispettive adesioni per mezzo di dichiarazioni scritte"; per i gestori di esercizi di vendita al dettaglio di generi alimentari si adotta la formula dello sciopero a singhiozzi: l'intera giornata lavorativa per il 21 e, nei giorni successivi, solo due ore di apertura per consentire alla popolazione in sciopero di approvvigionarsi.

é una forma di sciopero molto dura, come si puÔ constatare, ma molto diversa da altre forme di lotta attuate in quegli anni, quali l'occupazione delle terre, non molto conosciuta nella Valle Peligna, o lo sciopero "alla rovescia" (esecuzione di un lavoro ritenuto di pubblica utilitÁ, con la richiesta di un salario all'autoritÁ competente alla progettazione, finanziamento ed esecuzione del lavoro).

Il Prefetto, intanto, visto frustrato il suo tentativo di precludere l'uso del Teatro al Comitato ed ai manifestanti, avvia immediatamente un'indagine amministrativa sulle spese telegrafiche effettuate dall'amministrazione durante il primo tempo della mobilitazione. Indignato, il Marchese Mazara telegrafa al massimo funzionario governativo della provincia che le comunicazioni telegrafiche sono avvenute tutte a proprie spese.

La diffida ad usare il teatro e l'indagine amministrativa promossa nei confronti del Sindaco, pur essendo episodi di minor conto nell'ambito dell'intera vicenda del Distretto, divengono immediatamente di pubblico dominio e vengono interpretate quali ennesime vessazioni nei confronti non tanto dell'amministrazione, quanto invece dei cittadini di Sulmona e della loro dignitÁ.

Il 19 gennaio, alle 17, viene aperto il comizio di protesta all'interno del Teatro Comunale. Il Colonnello Sardi De Letto illustra, in apertura, uno studio lucido quanto appassionato sui motivi che avrebbero dovuto indurre il Ministero della Difesa a far rimanere il Distretto Militare a Sulmona; dÁ, inoltre, conto di una lettera inviata al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Nel corso della manifestazione viene quindi illustrato il calendario delle iniziative raggruppate sotto l'etichetta 'secondo tempo' della difesa del Distretto. Terminato il Comizio, l'attenzione si sposta a Palazzo San Francesco dove, con perfetto sincronismo, sta per iniziare la seduta straordinaria del Consiglio Comunale.

Il Marchese Mazara introduce il dibattito riferendo sullo stato delle iniziative volte a salvaguardare il Distretto Militare. La discussione si avvia, perÔ, su una nota stonata: alla proposta di inviare una ennesima delegazione a Roma per ottenere un colloquio con i parlamentari abruzzesi e, a questo fine, interessare l'onorevole Spataro, democristiano, il cavalier Nicola Serafini, compianto esponente di rilievo nel Partito Socialista, risponde ponendo la questione se l'incontro avverrÁ, correttamente, con tutti i parlamentari abruzzesi, o con i soli democristiani. La questione non É, come si vedrÁ, infondata ed un velo di tensione si alza tra i consiglieri. Tutto, perÔ, viene risolto impegnandosi ciascun gruppo consiliare ad interessare le istanze centrali del proprio partito per l'organizzazione dell'incontro unitario della delegazione con i parlamentari abruzzesi.

Risolta in questi termini la questione preliminare, chiede ed ottiene la parola il capogruppo comunista Claudio Di Girolamo. Le sue parole sono molto dure. Apre il discorso ringraziando il Colonnello Sardi De Letto per l'esposizione, effettuata durante il Comizio al Teatro, relativa allo studio sul Distretto Militare, ed il Sindaco e la Giunta per aver concesso al Comitato di Difesa Cittadina l'uso del Teatro, ma chiede ragione al Sindaco del suo silenzio sugli episodi di arroganza del Prefetto, di cui il Sindaco stesso É rimasto vittima. Propone successivamente di impegnare il Parlamento a che una sua commissione paritetica venga a rendersi conto, in prima persona, della ragioni dei sulmonesi sollevate a difesa del Distretto Militare. Per rafforzare la richiesta della costituzione della Commissione Parlamentare, continua il capogruppo comunista, e per dotare di maggior forza contrattuale la delegazione che dovrÁ recarsi a Roma ad incontrare i parlamentari abruzzesi, i consiglieri comunali dovrebbero immediatamente dimettersi minacciando ulteriormente, in caso di esiti negativi ai tentativi messi in atto per salvare il distretto, la non ripresentazione delle liste elettorali. All'intervento di Di Girolamo segue quello di un altro illustre esponente comunista, il barone Annibale Luigi Corvi, che alle parole dure del suo compagno di partito aggiunge il crisma di una corposa motivazione politica: bisogna impedire questa ennesima amputazione, anche se marginale, dell'economia cittadina e dell'ancora piÝ misero entroterra che attorno ad essa gravita, e di qui partire per chiedere l'intervento dello Stato per un decollo economico della zona.

é la volta dell'avvocato Vincenzo Masci del Movimento Sociale Italiano. Il suo É un intervento colorito ed appassionato: esibisce la certezza che il Distretto sta per essere sottratto a Sulmona non per motivazioni d'ordine tecnico o amministrativo, bensÍ per ragioni di potere politico. Ricorda come nel '54 tutti ebbero la sensazione di quanto ora si va palesando con sempre maggiore chiarezza: i deputati vengono a Sulmona solo a promettere ed a raccogliere voti; Taviani rimanda l'esecuzione del provvedimento di soppressione del Distretto solo per scegliere il momento piÝ opportuno e discreto; il Consiglio Provinciale tace per implicita solidarietÁ a L'Aquila ed il Prefetto, con le sue ultime prodezze della diffida a concedere il Teatro e dell'indagine amministrativa sulle spese telegrafiche effettuate dal Sindaco, ha fatto la sua scelta di campo. "Dobbiamo iniziare da oggi - afferma testualmente l'avvocato Masci - una linea di legale sabotaggio, dico legale sabotaggio; dobbiamo adottare un comportamento di decisa e legale ribellione". é in queste parole tutto il senso di quella che venne definita dalla stampa la rivolta borghese di Sulmona. L'avvocato Masci conclude invitando alle dimissioni tutti i consiglieri comunali e gli altri degli enti da questo emanati, senza badare all'epoca delle dimissioni: attuali o future che siano, esse devono corrispondere al momento nel quale si acquisisce la certezza che il Distretto É perso irrimediabilmente. "In questa disgraziata ipotesi, anzi, non si dovranno nemmeno piÝ presentare le liste elettorali di tutti i partiti".

Mentre viene costituita una commissione paritetica per la formulazione di un ordine del giorno, seguono gli interventi di altri consiglieri che, con articolazioni diverse da quelle precedenti, ne seguono la sostanza.

Gli ordini del giorno che vengono proposti all'assemblea sono due: nel primo si vota la proposta di inviare a Roma una delegazione che si incontri con i parlamentari abruzzesi, stabilendo ancora che successivamente ai risultati conseguiti nell'incontro si potranno avere a disposizione gli elementi per valutare se dimettersi o meno. Qui si verifica, perÔ, un incidente di percorso: un emendamento presentato dal gruppo comunista viene votato da tutti, tranne che dal Consigliere della Democrazia Cristiana Incani, quello stesso del quale si disse nel '54, che se ne fuggÍ in quel di Pescara per non dimettersi dalla carica di consigliere provinciale (5).

Con il secondo ordine del giorno, che viene votato all'unanimitÁ, il Consiglio Comunale di Sulmona chiede "la nomina di una commissione tecnico-parlamentare perchÊ venga nella nostra provincia (sottolineatura d.r.) per rendersi conto delle imprescindibili necessitÁ sotto tutti gli aspetti che il Distretto Militare di Sulmona venga conservato e rafforzato, e questa necessitÁ prospetti al Governo ed in particolare al Ministro della Difesa".

Il Consiglio Comunale viene chiuso nella tarda serata e l'indomani il Marchese Mazara si premura di avvertire privatamente l'onorevole Spataro di quanto deciso dal Consiglio Comunale. Nella lettera che invia al notabile democristiano il sindaco liberale afferma: "Non avendo titolo per ostacolare la richiesta dell'intero consesso, ho dovuto aderire alla volontÁ espressa dai consiglieri e mi affretto a comunicarlo alla E.V.". Dalla lettera si puÔ tranquillamente argomentare che il Consiglio Comunale ha deciso di fare qualcosa che, non possiamo dire nÊ come nÊ perchÊ, dispiace all'onorevole, e che il Sindaco per causa di forza maggiore ha dovuto seguire una determinata condotta di cui sembra quasi scusarsi con un suo dirigente politico; ma l'uno É democristiano e l'altro É liberale. Di fronte a segnali cosÍ espliciti, a posteriori, possiamo essere autorizzati a ritenere che le cose stavano, in quel momento, prendendo la mano ai loro autori.

Nella mattinata del 21, puntuale, inizia lo sciopero ad oltranza: "Alle 11 - riferisce il "Popolo" in pagina locale - un corteo al quale si É unita tutta la cittadinanza si É mosso dal Comune con il labaro in testa (piÝ che labaro, gonfalone; al corrispondente É scappata dalla penna una piccola nostalgia 'imperiale') per raggiungere il monumento ai Caduti ove É stata deposta una corona di alloro. Il corteo ha fatto poi ritorno al Comune, si É portato all'Aula Magna di Palazzo San Francesco ove il Presidente del Comitato Cittadino, commendator Sardi De Letto e l'avvocato Autiero hanno tenuto applauditi discorsi, dopo di che si É sciolto con il massimo ordine nella speranza che la commissione che si recherÁ martedÍ prossimo a Roma possa ottenere i risultati desiderati dal popolo di Sulmona, che sta vivendo ore di ansia e trepidazione".

Nella stessa giornata al Sindaco di Sulmona cominciano a pervenire attestazioni di solidarietÁ da organizzazioni di categoria e di forze politiche di Avezzano; giungono anche, tardive, forse sollecitate e senz'altro strumentali, le attestazioni di solidarietÁ del Presidente del Consiglio Provinciale aquilano, Santucci.

Nella giornata del 22 si viene a conoscenza di un fatto nuovo, imprevisto dal ben architettato copione dei tre tempi: viene narrato dal corrispondente de "Il Popolo" che lo introduce adottando i classici ed ormai consunti schemi giornalistici usati per segnalare eventi d'eccezione: "Apprendiamo all'ultima ora che il Segretario della Democrazia Cristiana, professor Michele Critani, i consiglieri provinciali Tirone e Bolino, ed il Sindaco si sono recati presso la Prefettura di L'Aquila per una riunione ivi indetta per l'esame della situazione della cittÁ in rapporto alla questione del Distretto". Su questo avvenimento, nei giorni successivi, cala il silenzio stampa; nÊ sono stati rinvenuti documenti che avrebbero potuto chiarire quanto si É detto in quella riunione. Sulla base della notizia riportata, perÔ, si puÔ rilevare come sia anomalo il fatto che il Prefetto convochi oltre al Sindaco, per il quale esiste un rapporto di natura istituzionale (tra le attribuzioni del Sindaco esiste anche quella di funzionario del governo e perciÔ, per questo aspetto, É dipendente gerarchicamente dal Prefetto), anche l'intero staff dirigenziale politico della Democrazia Cristiana. Se questo viene convocato É certo perchÊ il Prefetto lo considera quale centro motore dal quale dipende l'ordine pubblico a Sulmona. é questa un'ulteriore prova della vera natura del conflitto in atto tra i gruppi di potere aquilani, appoggiati dalle strutture statali controllate dalla DC, ed il gruppo dei notabili democristiani sulmonesi.

Nella serata del 22 il Marchese Mazara parte alla volta di Roma. L'incontro della delegazione sulmonese con i parlamentari abruzzesi É fissato per l'indomani alle 11. PerchÊ mai il Sindaco parte cosÍ in anticipo rispetto alla delegazione? Si puÔ pensare che il Sindaco abbia voluto avere del tempo a disposizione per svolgere qualche e ben precisa attivitÁ diplomatica!; perÔ di questa ipotesi non esiste alcuna conferma. I componenti della delegazione lo raggiungono a ,Roma con il rapido delle 10 e 15, puntuali per il colloquio delle 11. Questo, perÔ, non si svolge secondo le modalitÁ previste. Alle 11 la delegazione sulmonese riesce a parlare con tutti i parlamentari abruzzesi, fuorchÊ con quelli democristiani. Questi incontreranno la delegazione nel pomeriggio, alle 17,30. Secondo quanto affermato in quei giorni, ciÔ sarebbe avvenuto perchÊ gli onorevoli democristiani non avevano voluto ricevere la delegazione insieme ai loro colleghi socialisti e comunisti. Ma É ragionevole supporre che potessero esistere altri motivi oltre quello presentato quale giustificazione; si puÔ rapidamente supporre, cioÉ, che i democristiani avessero tutto l'interesse a trattare in separata sede ,con la delegazione sulmonese per meglio gestire, anche su questo nuovo versante, la questione del Distretto.

In ogni caso, nei due incontri la delegazione sulmonese riesce ad ottenere l'impegno dei Parlamentari abruzzesi per l'istituzione di una commissione tecnico-conoscitiva per verificare, anche con un sopralluogo, le ragioni militanti a favore di Sulmona per la permanenza in essa del Distretto. Si riesce a strappare, inoltre, un incontro con il Ministro della Difesa Taviani; anzi viene assicurato che il Ministro avrebbe potuto ricevere la delegazione quel giorno stesso, se non fosse stato impegnato in importanti incontri parlamentari; a causa di questo semplice inconveniente tecnico, quindi, la delegazione potrÁ incontrare S.E. il Ministro il 29 gennaio.

Alla luce di questi risultati sembra che il secondo tempo della difesa del Distretto abbia ottenuto dei risultati positivi e viene, perciÔ, dato lo stop allo sciopero ad oltranza. In cittÁ, perÔ, tutti rimangono con il fiato sospeso in attesa dell'incontro con il Ministro; incontro che ormai sembra avere tutte le carte in regola per essere considerato conclusivo. Interpretando, invece, con il senno del poi, i risultati ottenuti in quei colloqui romani del 22 gennaio del '57, non si puÔ non pensare al colossale raggiro che si andava preparando ai danni degli ignari delegati sulmonesi.

Nei giorni che seguono, da Sulmona partono e giungono telefonate tese ad acquisire elementi concreti di conoscenza sull'atteggiamento che il Ministro terrÁ nel prossimo incontro. Nella giornata del 27 "gli onorevoli Spataro e Nataloi - si cita testualmente da "I Moti di Sulmona", di un anonimo CIVIS, uscito a Sulmona a cura della Casa Editrice EPI, per i tipi della tipografia Labor, il 15 febbraio 1957 - confermano l'incontro con il Ministro Taviani fissato per il 29 ed assicurano che nel frattempo resta sospeso ogni trasferimento di materiale del Distretto da Sulmona a L'Aquila".

Sta di fatto che dopo queste telefonate rassicuranti, nella notte successiva accade esattamente il contrario.

Nella notte tra il 27 ed il 28 gennaio, il vice questore della Pubblica Sicurezza di L 'Aquila giunge a Sulmona, circondandone la periferia con la forza ai suoi ordini; nel frattempo "alcuni autocarri dell'esercito, scortati da due o tre pattuglie di carabinieri" trasferiscono il carteggio del Distretto Militare di Sulmona in quel di L'Aquila. Questo si legge nella sentenza della III sezione penale del Tribunale di Roma che ha giudicato gli imputati per i fatti di "Jamm' mÔ"; vi si afferma ancora che "nessun incidente turbava tale operazione". Ed É certo che nessun incidente É avvenuto; ma il rapporto giudiziario che racconta dell'andamento della operazione ha il solo torto di provenire da una parte che ha avuto tutto l'interesse ad edulcorarne la brutalitÁ. Infatti mentre i militari si occupano del trasbordo degli incartamenti dagli uffici sui camion, le forze dell'ordine circondano, armi alla mano, l'isolato nel quale si trova il palazzo che ospita il Distretto, bloccandone cosÍ tutti gli accessi. Fermano, fino al compimento dell'operazione, i pochissimi passanti notturni ed occasionali, diffidandoli, nel rilasciarli, dall'avvertire le autoritÁ di quanto sta accadendo. Nel frattempo tutti i telefoni di Sulmona sono stati bloccati. Terminato il trasbordo degli incartamenti, mentre i militari scortati dai carabinieri tornano a L'Aquila, la polizia rimane a Sulmona agli ordini del vice questore con l'evidente scopo di prevenire eventuali disordini o sommosse.

La reazione della cittÁ, sebbene stupefatta, É pronta.

Il Sindaco invia un telegramma a Taviani che suona in questi termini: "Dopo quanto avvenuto questa notte distretto militare in spregio promesse fatte sottoscritto tramite eccellenza Natali et Prefetto Provincia Aquila permettomi elevare vivissima protesta et esprimere indignazione unanime intera popolazione stop Rinnovole preghiera dare disposizioni che assieme sottoscritto domattina vostra eccellenza riceva intera commissione composta rappresentanti partiti politici seno questo consiglio comunale".

NÊ il Comitato di Difesa Cittadina rimane con le mani in mano. Il Colonnello Sardi De Letto convoca immediatamente un comizio e dobbiamo ai rapporti redatti dagli agenti di Pubblica Sicurezza presenti in platea al Teatro Comunale se abbiamo una narrazione che, piÝ che precisa, É ampiamente chiarificatrice rispetto agli stati d'animo prevalenti nell'assemblea. E proprio per consentire di cogliere delle sfumature, lasciamo la parola all'agente di pubblica sicurezza Michele Avallone ed al marescialilo Etelwardo Sigismondi, cosÍ come risulta dalla sentenza del Tribunale romano: "secondo la cennata relazione, erano state pronunciate, davanti ad una folla eccitata ammontante a circa 3000 persone, espressioni oltremodo vivaci; in essa leggesi in particolare tra l'altro: 1) il Sardi De Letto ha detto che le sue parole non possono manifestare che lo sdegno ed il dolore per il delitto che si sta compiendo nei riguardi di Sulmona, sdegno irriso dalle autoritÁ centrali:; non É possibile che si possa beffare una cittÁ come Sulmona sarebbe stato bello e dignitoso da parte delle AutoritÁ asportare il Distretto di giorno, perchÊ la notte É dei ladri... Chiesto se domani la commissione si deve o meno recare dal Ministro della Difesa, la maggior parte del pubblico ha detto di sÍ; per la maggior parte hanno detto che occorrono i comunisti: (probabilmente perchÊ i rappresentanti della sinistra venivano sistematicamente esclusi dagli incontri con quelli dell'area governativa, n.d.r.). Ha aggiunto che, se non avesse famiglia, porrebbe fine ai suoi giorni: Per la soppressione del Distretto aveva avuto assicurazioni da parlamentari e da ultimo dal Generale Orioni, comandante della zona militare di L'Aquila, che il Distretto sarebbe per ora rimasto. Stamattina S.E. il Prefetto, in seguito a telefonata del Sindato, ha detto che nulla sapeva: A Roma la commissione porterÁ al Ministro della Difesa la parola di sdegno per il tradimento perpetrato. SarÁ applicato il terzo tempo nel caso che la commissione dovesse tornare con esito negativo.

A Sulmona vi saranno le dimissioni di tutte le cariche e tutti i partiti s'impegneranno a non presentare le liste. Il Comitato Cittadino resterÁ in piedi. A Sulmona la sera del 29 si suoneranno le campane a morto perchÊ l'esito sarÁ negativo. (...) Sappiano il Prefetto, il Questore ed il Commissario di Sulmona che in Sulmona vi É la mobilitazione generale. Sulmona non solo dovrÁ riavere il Distretto, ma dovrÁ assurgere a Capoluogo di Provincia e allora si metterÁ una barriera tra Sulmona e L'Aquila".

Sono, come si vede, le parole di un uomo dominato da una passione mal repressa. Scaldano gli animi senz'altro; e proprio per queste parole il colonnello Sardi De Letto sarÁ incriminato insieme agli altri, che qui di seguito vanno ricordati, per il reato di istigazione a delinquere; in ogni caso, anche se le parole del colonnello Sardi De Letto hanno riscaldato gli animi, non sono, tuttavia, riuscite a spingere la popolazione alla rivolta, chÊ, se quella forza avessero avuto, avrebbero dovuta scatenarla in quel luogo ed in quel momento; non si verificÔ alcun evento rivoltoso. E c'É da dire che sussistevano tutte le condizioni per la rivolta: la beffa ancora calda, gli animi eccitati che vengono sollecitati ancora di piÝ dalle parole di fuoco degli oratori.

Continua il "verbale dell'agente: 2) l'avvocato Giovanni Autiero, consigliere provinciale del P .L.I. ha detto: Quello che É stato fatto stanotte É una vigliaccheria, un tradimento. Le parole d'onore sono cadute: Le autoritÁ debbono una buona volta capire il male che hanno fatto a Sulmona. La perfidia da parte delle autoritÁ si É dimostrata lampante... Lui e l'avvocato Giacchesio hanno dato le dimissioni da Consiglieri Provinciali e gli altri si sono giÁ impegnati a darle. I Sulmonesi sanno soffrire e tacere e sanno ricordare i moti del 29". Un altro oratore, l'avvocato Masci, sempre secondo quanto riportato nel verbale, ha detto che "il Ministro della Difesa aveva tradito... Ha ammesso che per il Distretto non nutre speranza... Egli ha interessato i suoi parlamentari, verso i quali, perÔ, non ha nemmeno fiducia. Ha criticato la presenza del vice Questore, che 'per caso si trovava a Sulmona... ' ha invitato tutta la popolazione a rimanere unita e vigilante. Se ora ci viene tolto il Distretto, in seguito ci verrÁ tolto anche il Tribunale; ed allora vogliamo che ci tolgano anche tutti gli uffici finanziari, perchÊ tasse non ne pagheremo piÝ".

Nonostante la vivacitÁ dell'assemblea, non si verifica alcun incidente e se si decide di andare comunque ad incontrare il Ministro Taviani, lo si fa nell'amara consapevolezza che oramai il Distretto Militare É perso per Sulmona e che non si passa immediatamente all'attuazione del 30 tempo della proposta - quello che potremmo definire della disobbedienza civile: dimissioni dei consiglieri in qualsiasi organo amministrativo ed elezione primaria e secondaria, non ripresentazione delle liste e, eventualmente, rifiuto di pagare le tasse - solo perchÊ si spera, senza nemmeno confessarlo, di ottenere dal Ministro qualcosa in cambio del Distretto.

La delegazione sulmonese il 29 gennaio parte per l'ennesima volta verso Roma; vi fanno parte i rappresentanti di tutti i partiti locali, anche non rappresentati in seno al Comune, ed É guidata dal colonnello Sardi De Letto. E mentre a Sulmona si sciopera per un'ora in appoggio alla missione della delegazione, alle 11,15 il Ministro Taviani dÁ ordine ad un agente di P.S., che svolge le funzioni di usciere, di chiamare per il colloquio il Marchese Mazara, il colonnello Sardi De Letto, i consiglieri provinciali Ricci, Monaco, Ciancarelli ed il senatore Tirabassi, Sindaco di Avezzano. Donde spuntino questi ultimi signori non si sa; sta di fatto che ogni volta che una delegazione di Sulmona giunge a Roma, compaiono questi terzi incomodi che si infilano negli incontri. Non partecipa questa volta all'incontro Natali. Gli altri componenti della commissione, tra i quali un democristiano, vengono lasciati fuori lo studio, a fare la consueta anticamera.

A questa delegazione, riveduta e corretta secondo la sua volontÁ, il Ministro dice, secondo quanto il Sindaco Mazara riporterÁ al Consiglio Comunale del giorno successivo, che lo Stato Maggiore dell'Esercito, in uno studio ampio ed accurato, era giunto alla determinazione di sopprimere 50 Distretti Militari in cittÁ non capoluoghi di provincia, oltre a quelli di Ferrara, Parma, Reggio Emilia e Trapani. A queste argomentazioni risponde il colonnello Sardi De Letto, armato di tutto punto con piante topografiche e di uno studio fornitogli dal parlamentare liberale onorevole Colitto, sul ridimensionamento degli enti militari territoriali in esame. Da questo studio si evince che criteri informatori tenuti a base del ridimensionamento stesso sono tre, e cioÉ la funzionalitÁ, l'economia e le tradizioni storiche. é relativamente facile, per il Sardi De Letto dimostrare, carte alla mano, che Sulmona possiede in pieno tutti i criteri posti a base del piano di ridimensionamento. Sulmona e non L'Aquila.

Ma il Ministro nicchia e si concede, anzi, una ironia che i membri della delegazione fingono di ignorare o effettivamente non colgono. Risponde, di fronte all'evidenza dei fatti, di essere un "patito" per la geografia, ma che non poteva revocare la soppressione del Distretto Militare di Sulmona perchÊ lo studio dello Stato Maggiore non lo consentiva. Per venire incontro alle aspirazioni di Sulmona avrebbe disposto esperimenti pilota nelle provincie di L'Aquila, Matera e Potenza; nella provincia aquilana, e precisamente nelle zone di Sulmona, Avezzano, Tagliacozzo, Castel di Sangro e Castelvecchio Subequo, le Tenenze dei Carabinieri avrebbero rilasciato il nullaosta di espatrio e certificati vari; avrebbe inoltre trasferito a Sulmona il deposito del 46œ Reggimento di Fanteria, dando infine assicurazione che tutti gli impiegati civili avventizi del Distretto di Sulmona non sarebbero stati trasferiti, ma assorbiti dagli uffici del Deposito. Alle richieste, avanzate in i subordinata ipotesi dalla delegazione, di riattivare lo stabilimento della Montecatini di Pratola Peligna per la produzione della polvere nera per la dinamite, il Ministro risponde che sarÁ ben lieto di fare quanto per lui sarÁ possibile.

In margine all'andamento di questo colloquio, sia per le sue modalitÁ che per il suo contenuto, É lecito supporre che ,il Sindaco Mazara non abbia riferito tutto al consiglio comunale del giorno successivo. é lecito supporre, anche in assenza di fonti alternative e dirette, che di fronte alla circostanziata replica ,del Colonnello Sardi De Letto, Taviani abbia cavato fuori dal cilindro delle sue argomentazioni, non il proverbiale coniglio, quanto invece la prevedibilissima ragion di stato, se non ragion di partito. Certo non sbandierandola, ma facendola senz'altro balenare dinanzi agli occhi della delegazione 'ristretta'. E ciÔ É tanto piÝ plausibile quando si tenga presente che nel successivo colloquio che Taviani concede, "noblesse oblige", al resto della delegazione, altre alla ripetizione di quanto appena detto in "camera caritatis" afferma, secondo quanto il capogruppo comunista al Comune, Claudio di Girolamo, riferirÁ al Consiglio l'indomani, che la cittÁ di L'Aquila deve tradizionalmente considerarsi quale capoluogo di regione e che per questo il Distretto non puÔ che rimanere lÍ. Per ben due volte, infine, accenna al fatto che, nel momento della decisione in merito alla soppressione di uno dei due Distretti, elementi politici avevano prevalso su quelli militari. Su questo fatto, in Consiglio Comunale vi fu una polemica serrata tra il Sindaco ed il Capogruppo comunista. Nel verbale della seduta É riportato testualmente: "il Sindaco interrompe a gran voce l'oratore per affermare che quanto esposto dal consigliere Di Girolamo circa il comportamento e le affermazioni del Ministro non risponde a veritÁ. Ma il consigliere insiste: "Ricordai al Ministro che nel '54 avevo preso parte alla precedente commissione nominata per difendere le sorti del nostro Distretto e ricordai che allora generali e colonnelli riconobbero in pieno la prioritÁ di Sulmona su tutte le altre cittÁ abruzzesi per la sede del Distretto. Il Ministro rispose: 'Sono con lei; lei ha perfettamente ragione, lo Stato Maggiore dal 1954 ad oggi ha mutato opinione ed elementi politici si sono inframessi per dirottare le decisioni finali. Non credete a coloro che vi vengono a dire l'opposto di quello che ho detto io in questo momento".

L'affermazione di Taviani, cosÍ come ci viene proposta dalle parole dell'allora capogruppo comunista, verbalizzate dal segretario comunale, il dottor Ferri, É categorica; e il Marchese Mazara che, come abbiamo visto prima, interrompe a gran voce l'oratore attribuendogli sul fatto il mendacio, questa volta tace ed incassa.

Quali furono gli elementi politici che determinarono un mutamento di rotta a 180 gradi nelle opinioni dello Stato Maggiore?.

Tornando, comunque, alla giornata del 29 gennaio del 1957, c'É da registrare subito dopo l'incontro con Taviani un imprevisto, ma senz'altro accuratamente preordinato, colloquio con alcuni parlamentari democristiani, tra i quali Spataro e Natali, i quali offrono alla commissione il proprio interessamento al fine di procurare un incontro nientemeno che con il Presidente del Consiglio dei Ministri, l'onorevole Antonio Segni. A patto che, perÔ, non si ponga in essere il terzo tempo della agitazione.

Non sono stati ritrovati documenti o testimonianze precise ed affidabili su come andÔ questa seconda riunione; si ritiene perÔ che quantomeno i componenti della commissione non se la siano sentita di dare una qualsiasi risposta, rimandando tutto al Consiglio Comunale fissato per l'indomani. Il Sindaco Mazara, per il momento, non puÔ far altro che telefonare al Comitato di Difesa Cittadina e comunicare l'esito negativo della missione.

A Sulmona, nel tardo pomeriggio, viene convocato un comizio, di nuovo al Teatro Comunale, e questa volta ad arringa re la folla intervenuta ci sono soltanto l'avvocato Giacchesio ed il dottor. De Monte. Nonostante l'amarezza, la rabbia, durante il comizio si giunge persino ad un momento di ilaritÁ generale quando il dottor De Monte, trascinato dalla sua ben nota irruenza, invita i cittadini proprietari di automezzi a metterli a disposizione per effettuare una marcia su Roma. In ogni caso prevalgono gli inviti alla calma pronunciati dall'avvocato Giacchesio che ricorda, tra l'altro, la seduta del Consiglio Comunale fissata per l'indomani.

A sera rientra la commissione da Roma. Una folla di cittadini acclamanti, esaltati dalla disperazione della sconfitta, la accoglie. Gli applausi sono tanti che il marchese Mazara si vede costretto a dire, secondo alcuni testimoni oculari: "non dovete applaudire noi che non siamo stati capaci di difendere sino in fondo la nostra cittÁ, Sulmona ha subito una grave sconfitta e domani ratificheremo in Consiglio i risultati negativi di queste tristi giornate". Ma i cittadini si stringono ancora di piÝ attorno ai loro rappresentanti e li accompagnano in corteo dallo scalo ferroviario alla cittÁ, distante alcuni chilometri.

Il 30 gennaio É l'ultima giornata di mobilitazione della rivolta borghese: scatta, infatti, il terzo tempo delle agitazioni. Si mobilita anche il comprensorio. A Palazzo San Francesco sono presenti anche i sindaci del territorio su cui insisteva la competenza amministrativa del Distretto Militare. Una simile riunione era stata convocata il 17 gennaio, ma non aveva potuto effettuarsi al meglio perchÊ, per una abbondante nevicata, le strade che dall'entroterra portavano alla Valle Peligna erano impraticabili. Sono presenti una ventina di sindaci su 65; altrettanti hanno fatto pervenire la loro incondizionata adesione, altre verranno nei giorni successivi.

L'importanza di questa riunione che precede quella del Consiglio Comunale risiede nel fatto che in essa si offre il destro al Colonnello Sardi De Letto per effettuare un intervento in buona parte rivelatore delle responsabilitÁ politiche sottese alla soppressione del Distretto Militare di Sulmona. f1 suo intervento segue quello del Sindaco che, al solito, illustra l'andamento dei fatti degli ultimi giorni, dalla proditoria azione notturna all'incontro con il Ministro Taviani, alla proposta dei parlamentari democristiani.

Quando prende la parola il colonnello Sardi De Letto, un'oratoria piÝ irruente e spigolosa sostituisce quella accorata e smussata del Sindaco. "Sono un uomo d'ordine e

liberale - esordisce il Presidente del Comitato di Difesa Cittadina - e dirÔ parole altre e diverse da quelle del Sindaco". E si lancia ad illustrare le origini e le finalitÁ del Comitato che rappresenta: la difesa degli interessi di Sulmona e del circondario. E ciÔ perchÊ, sottolinea l'oratore, la cittÁ ed il suo territorio non hanno difensori in Parlamento. Per quanto riguarda il Distretto, illustra la tattica dei tre tempi ed entrando nel merito della questione ricorda uno stralcio del colloquio da lui avuto con Taviani:

"Ieri ho detto al Ministro: qual' É il servizio essenziale del Distretto? la mobilitazione. Quale É il punto centrale, veramente centrale della Regione ai fini della mobilitazione? L'Aquila? no di certo!. La risposta del Ministro: non posso rispondere, É lo Stato Maggiore che É competente". Il colonnello continua ancora presentando le ragioni di Sulmona di fronte alla prepotenza subita. "Questa É l'angustia di Sulmona e dei paesi viciniori - continua - subire il capoluogo che da anni e da decenni ci toglie la nostra vitalitÁ. Se L'Aquila fosse stata una buona madre, tutti i centri della provincia si troverebbero in altre condizioni". Sono parole pesanti, ma che non sono dirette alla cittÁ di L 'Aquila o alla popolazione; i destinatari di queste parole sono ben altri e nel prosieguo del suo intervento Sardi De Letto procede con allusioni un po' meno velate delle precedenti: "le ragioni tecniche che hanno fatto togliere il Distretto a Sulmona non provengono dallo Stato Maggiore, ma provengono senz'altro da motivazioni politiche. Siamo ancora sdegnati dal sopruso ladresco che ha subÍto Sulmona l'altra notte. Se esiste un responsabile per quanto accaduto, questo responsabile non lo vedo a Roma, bensÍ a L'Aquila. L'azione politica tendente a sminuire di importanza Sulmona ha poi trovato un comodo alleato nella polizia, vedi la presenza del Vice Questore a Sulmona la mattina dopo il trasferimento notturno". é un affondo nei confronti dei gruppi democristiani che utilizzano le strutture amministrative aquilane per il proprio potere. Nomi non se ne fanno, ma aleggiano senz'altro nella sala, e primo fra tutti quello di Natali. I 'dietrologi' che perÔ possono cogliere le allusive accuse di Sardi De Letto sono pochi e quanto addebitato ai patroni aquilani É il massimo che poteva essere detto in quel momento e da quel gruppo politico che tirava le fila della protesta.

Nel dibattito che segue l'intervento del Presidente del Comitato di Difesa Cittadina prevale la linea, da parte dei sindaci del circondario, di non dimettersi. Ragioni tattiche non consentono a questa linea di venir fuori con chiarezza; i sindaci dribblano la richiesta di dimissioni avanzando la necessitÁ di discutere la questione in seno ai propri consigli comunali. Il solo sindaco di Avezzano, il senatore Tirabassi, cerca di sfuggire alla logica obbligata derivante dalle circostanze, dal clima nel quale si svolge la discussione e tenta, con un fare accorto e diplomatico, di contestare le dichiarazioni del colonnello; Sardi De Letto affermando che di manovre politiche non possa parlarsi, quanto invece si deve parlare di complesso di inferioritÁ che sia Avezzano che Sulmona soffrono nei confronti del capoluogo di provincia. Anche in simili frangenti una testa di ponte aquilano riesce ad entrare nella tana del lupo e cerca di aggiungere al danno anche la beffa.

Alla fine del dibattito, l'assemblea approva all'unanimitÁ, senza sforzo eccessivo visto che si tratta di parole e non di atti concludenti quale il dimettersi, il seguente ordine del giorno: "I Sindaci del Distretto Militare di Sulmona, riuniti per esaminare il problema relativo alla soppressione del Distretto stesso, esprimono la piena, incondizionata solidarietÁ con la cittÁ di Sulmona; invitano i parlamentari della Regione a costituirsi in commissione permanente onde continuare a svolgere quell'azione tesa ad ottenere la revoca della soppressione del Distretto. Si riservano di convocare con urgenza i consigli comunali affinchÊ esprimano piÝ efficacemente gli atteggiamenti da assumere in questa lotta". La disobbedienza civile del terzo tempo viene cosÍ sconfitta in partenza in quanto i sindaci del circondario sulmonese non accettano, e riescono a farlo mettere per iscritto, di dimettersi insieme ai propri consigli comunali. SolidarietÁ, va bene, ma non autolesionismo; ormai la battaglia É persa e dimettersi É un gesto di autopunizione che gli amministratori della zona lasciano volentieri a quelli di Sulmona.

Poco piÝ tardi, infatti, nell'aula magna di Palazzo San Francesco si raccolgono, insieme ad un grandissimo numero di cittadini, i Consiglieri Comunali di Sulmona per avviare il terzo tempo della strategia di lotta per il Distretto. A questo punto, avendo perso su tutta la linea, si tratta di disobbedire civilmente, di rifiutare la propria collaborazione civica ad uno Stato che, invece di provvedere al benessere dei suoi cittadini, rende loro problematica l'esistenza mettendoli gli uni contro gli altri. Il momento É teso, ma non manca della solennitÁ delle grandi occasioni; perciÔ a parte la polemica tra il Sindaco ed il capogruppo comunista, di cui abbiamo giÁ parlato, tutti i protagonisti lo vivono con l'identica intensitÁ e determinazione.

Il Sindaco apre la seduta leggendo l'ordine del giorno votato dai suoi colleghi del circondario e ritessendo la cronaca degli ultimi giorni. DÁ notizia al Consiglio dell'ultimo tentativo che i parlamentari democristiani hanno effettuato per impedire lo scioglimento del Consiglio promettendo un incontro con il Primo Ministro. Ma, dopo aver ricordato di essere attualmente un cittadino fedele a Sulmona e non alla carica di Sindaco, il Marchese Mazara afferma: "é necessario che ognuno assuma in pieno e senza riserve le proprie responsabilitÁ per le conseguenze future che, dalla nostra decisione di questa sera, potranno derivare alla nostra cittÁ. Dalla disgrazia capitata ora a Sulmona mi auguro che possa derivare la unione effettiva di tutti i cittadini, unione di intenti e di spiriti, rivolta alla tutela degli interessi e alle fortune future ed immancabili del nostro Comune". E annuncia, cosÍ, le sue dimissioni.

I vari oratori che si susseguono pronunciano discorsi analoghi a quello del Sindaco. Non rimane altro da segnalare che la violenza verbale con la quale tutti i consiglieri che intervengono scagliano contro l'azione notturna del trasferimento. A quel punto non si distingue piÝ tra gruppi di potere e popolazione aquilana, tutto ciÔ che ha che fare con il capoluogo di provincia viene gratificato di parole, a dire il meno, poco edificanti. In parallelo a questa aggressione verbale nei confronti di L'Aquila viene costantemente avanzata l'ipotesi di rivendicare la dignitÁ di capolouogo di una nuova provincia.

La seduta prosegue e, mentre sul banco del Segretario Comunale cominciano a raccogliersi le lettere di dimissione dei consiglieri, si presenta in aula, accolto dagli applausi della folla, il consiglio di amministrazione della Casa Santa dell'Annunziata al completo. I membri di questo importante ente locale che gestisce un patrimonio vastissimo, e tra l'altro anche l'ospedale cittadino, vengono in comune a rassegnare le proprie dimissioni nelle mani del Sindaco. Seguono le dimissioni dei consiglieri dell'Ente Comunale di assistenza e del Comitato della Commissione Comunale dei Tributi. A conclusione della seduta l'assemblea comunale vota un ordine del giorno: 'Il Consiglio Comunale, riunitosi in seduta straordinaria il 30 gennaio 1957, mentre prende atto, plaudendo, delle decisioni dei Comuni della Circoscrizione Distrettuale, che si sono uniti alla lotta in atto per la permanenza del Distretto Militare di Sulmona, considerato che le AutoritÁ direttamente responsabili hanno deciso, in aperta violenza di ogni diritto e di ogni giustizia, la soppressione del Distretto medesimo, stigmatizza la ingiuriosa e deplorevole spoliazione consumata nottetempo ai danni di una vastissima zona e delibera in segno di viva protesta e di vivissimo sdegno di rassegnare, come in effetti rassegna, le dimissioni, auspicando che tutte le commissioni cittadine, i consiglieri provinciali, nonchÊ gli Amministratori dei Comuni compresi nella circoscrizione del Distretto, agiscano in conformitÁ; sollecita infine tutti i cittadini dall'astenersi dall'esercizio di tutti i diritti democratici fino a quando non sarÁ resa giustizia alla cittÁ di Sulmona e all'intera zona'.

Mentre viene approvato questo ordine del giorno, il segretario comunale raccoglie le ultime lettere di dimissioni. L'avvocato Masci suggerisce di votare l'esecutivitÁ delle stesse solo quando la notizia abbia raggiunto le competenti autoritÁ e ciÔ allo scopo, come dichiara, non solo di esternare la protesta, ma anche di intimidire. Si alza, perÔ, il cavalier Serafini e ribatte: "Abbiamo detto a sufficienza che intendiamo creare il caos amministrativo e pertanto dobbiamo prendere atto subito delle dimissioni presentate per renderle immediatamente irrevocabili". Si compie, quindi, quest'ultimo atto formale e all'unanimitÁ, per appello nominale, il Consiglio delibera sulla immediata esecutivitÁ delle dimissioni appena presentate.

A conclusione del verbale, il Segretario Comunale, il dottor Ferri, annota tra parentesi "E per dare piÝ solennitÁ alla presa d'atto delle rassegnate dimissioni, l'intero consiglio, con il Sindaco alla testa ed accompagnato da un migliaio di persone, si reca al Monumento dei Caduti in guerra". Sul monumento É ancora fresca la corona d'alloro postavi durante una precedente manifestazione del Comitato di Difesa Cittadina, con su scritte le parole: "I Sulmonesi ai loro gloriosi caduti perchÊ trattengano presso il luogo natio il Distretto, testimonianza eroica del loro sacrificio".

E con questo omaggio retorico e patetico ai Caduti si chiude questa fase dei fatti di "Jamm' mÔ". Finora non si É fatto altro che parlare di marchesi, baroni, colonnelli, avvocati, cavalieri, ministri e parlamentari. Sia come registi, che come attori protagonisti, questi personaggi avevano condotto un'azione tesa a creare, come É stato affermato nell'introduzione, oltre che nell'area piÝ vasta della provincia, una 'borghesia di stato' anche a Sulmona. E a questo fine si cercÔ di usare la soppressione del Distretto, che nulla toglieva, sia dal punto di vista economico, sia da quello del prestigio, alla cittÁ di Sulmona ed al suo Circondario. Tuttavia la soppressione di questo ufficio militare molto significava relativamente alla volontÁ della corrente dominante della Democrazia Cristiana di L'Aquila: significava, cioÉ, creare nello stesso territorio della provincia un secondo centro di potere che avrebbe sottratto forza e capacitÁ di governo a quello aquilano. La gestione delle risorse finanziarie provenienti dallo Stato, ai fini della creazione di un unico centro di potere escludeva che esse fossero spese anche per la zona di Sulmona, che ottenne la misera cifra di 70 mi1ioni per il proprio acquedotto a fronte, per esempio, dei tre miliardi che la provincia di L'Aquila ottenne, in quello stesso periodo, dal Ministero dell'Agricoltura e Foreste per un piano di rimboschimento. Essendo giÁ in moto un meccanismo tutto teso a rafforzare clientelarmente il gruppo aquilano capeggiato da Natali, É lecito immaginare che questo gruppo sarebbe intervenuto, persino contro gli interessi dello stesso partito in una altra zona, di fronte all'eventualitÁ che il Governo Centrale potesse sottrarre qualche strumento di contronto clientelare e politico destinandolo a quello che poteva divenire un pericoloso concorrente.

Di qui la durissima reazione del gruppo democristiano di Sulmona che, da dietro le quinte e con fortissime contraddizioni interne che lo decimarono, mise in piedi una protesta che, quale sua estrema ratio, aveva individuato la disobbedienza civile. 'Le dimissioni di tutti gli organi amministrativi della cittÁ erano state date nella convinzione di infliggere un grave danno allo Stato. Si sperava, che di fronte al suicidio civico di Sulmona, le manovre di sottogoverno avrebbero ceduto il passo ad interventi finanziari consistenti anche per Sulmona. Si attendeva perciÔ la contromossa dello Stato; e questa, tempo due giorni, viene effettuata, ma non nella direzione sperata.

Note:

(5) E' un episodio margina1e, ma che testimonia della presenza anche a Sulmona di uomini legati a correnti favorevoli alla soppressione del Distretto, anche se non in maniera esplicita; a correnti cioÉ esterne.

jamm08.jpg (74912 byte)

I MOTI POPOLARI

Le dimissioni di tutti gli organi amministrativi della cittÁ, il paventato, ed a torto, pericolo che tale forma di protesta stesse lÍ lÍ per estendersi ai paesi del circondario, la minaccia della non ripresentazione delle liste, se non valgono a restituire il Distretto, raggiungono, perÔ, senz'altro l'obiettivo di impensierire, e non poco, le autoritÁ ed in special modo il Prefetto. Una cittÁ come Sulmona, senza governo amministrativo e in uno stato di tensione latente rappresenta come minimo una spina nel fianco, che diverrebbe ancora piÝ dolorosa nel caso che i paesi del circondario volessero andare oltre le espressioni di solidarietÁ e gli ordini del giorno.

Nelle primissime ore della mattinata del 2 febbraio, perciÔ, il Prefetto di L'Aquila, il dottor Ugo Morosi, telefona al Sindaco Mazara e gli annuncia una sua visita, giustificandola quale normale visita quindicinale compiuta nei comuni della provincia e tesa a mantenere buoni rapporti tra gli uffici della prefettura e gli enti locali. E' inutile dire come il Sindaco abbia tentato in tutti i modi di dissuadere il Prefetto dal compiere 'la normale visita quindicinale'. Questa, comunque, tanto 'normale' non doveva essere se il Prefetto subito dopo aver telefonato al Sindaco, chiama il commissario di Pubblica Sicurezza, il dottor Pietropaolo Dattilo, chiedendogli di predisporre un adeguato servizio di ordine pubblico. Anche il Commissario cerca in tutte le maniere di convincere il Prefetto a rinunciare ai suoi propositi, ma senza ottenere alcun risultato: il dottor Ugo Morosi parte con il suo autista alla volta di Sulmona.

Il Commissario Dattilo gioca la sua ultima carta: sale su un auto e corre incontro al Prefetto per scongiurarlo di non entrare a Sulmona. A metÁ strada, sulle svolte di Popoli, incontra l'auto prefettizia; di nuovo le preghiere tese a far recedere il funzionario dalla sua volontÁ, ma non c'É nulla da fare. Il Commissario Dattilo riesce solo ad ottenere che il Prefetto, prima di entrare al Comune, si fermi al Vescovado per rendere omaggio al Vescovo Luciano Marcante, l'amato patriarca locale.

E' chiaro che il Prefetto vuole imporre con la forza un ritorno all'ordine costituito, scegliendo a questo fine la strada peggiore. Il funzionario non si rende conto, tra l'altro, che le prerogative connesse alla sua carica, delle quali si fa forte nei confronti del Sindaco e del Commissario di Pubblica Sicurezza, lo rendono, agli occhi della popolazione, responsabile insieme al governo dell'accaduto; con l'aggravante, che non É di brevissimo momento in quel periodo, di provenire da un uf1ficio aquilano, da una cittÁ, cioÉ, che forte dei suoi patroni, succhia dalla provincia tutte le risorse disponibili. A tutto questo deve aggiungersi un'altra considerazione: i giorni successivi al 30 gennaio la calma, É vero, É scesa a Sulmona; ma É una calma piena di rabbia repressa a stento.

La notizia dell'imminente arrivo si É comunque diffusa a Sulmona. E' dubbio quale sia stata la fonte dalla quale essa si sia propagata. Non É stato certo il Commissario Dattilo, nÊ uno dei suoi uomini a diffonderla. NÊ si puÔ giurare che sia stato il Sindaco ad avvertire il Comitato di Difesa Cittadina. Il liberale Marchese Mazara É culturalmente e politicamente avverso a qualsiasi forma di protesta politica che non rientri in canali strettamente legali; il massimo che ha potuto fare in questo senso É tutto racchiuso nelle sue dimissioni e nella deposizione della corona d'alloro al Monumento ai Caduti. Certo É che la cittÁ prepara al Prefetto un'accoglienza memorabile.

Non viene previsto niente di violento; si vuol solo dimostrare che Sulmona É fredda nei confronti delle AutoritÁ. Il Comitato di Difesa Cittadina in un batter d'occhio diffonde la nuova parola d'ordine tra la cittadinanza: al suo arrivo il Prefetto, S.E. il dottor Morosi, deve trovare una cittÁ deserta, le strade vuote, le saracinesche dei negozi abbassate, i muri tappezzati di striscioni con slogan di protesta, mentre le campane dell'Annunziata e delle altre chiese di Sulmona devono rintoccare nel classico scampanio 'a morto'.

Questi sono i limiti che il Comitato di Difesa Cittadina impone alla popolazione: protesta al limite della disobbedienza civile, ma non al di lÁ di stretti ambiti legali. Se tutto fosse rimasto in questi limiti, sarebbe stato giusto qualificare l'azione di protesta "rivolta borghese", come successivamente fece la stampa nazionale, sia milanese che romana. Ma proprio in questa frazione di tempo, quello che il Prefetto impiega per giungere da L'Aquila a Sulmona, puÔ essere preso quale esatto momento di passaggio dal carattere 'borghese' della rivolta a quello "popolare".

Finora la rivolta É stata 'borghese' perchÊ motivata da uno scontro politico non tra partiti diversi ideologicamente, ma tra gruppi appartenenti alla stessa classe dominante; gruppi alla disperata ricerca di un potere o del consolidamento dello stesso. E mentre da una parte quello prevalente usava per il raggiungimento dei suoi fini lo Stato in tutte le sue articolazioni, da quelle centrali a quelle periferiche, dal Ministro al Prefetto, quello destinato a perdere aveva usato l'unica arma a propria disposizione: il blocco delle istituzioni sostenuto dal clamore, clamore e non rivolta, popolare. La partita, all'interno di questa logica, era stata giocata e conclusa con la deposizione della corona d'alloro al Monumento ai Caduti di ,Sulmona. Nonostante la gravitÁ degli avvenimenti tutto si era svolto secondo la logica di un sistema e secondo regole, tutto sommato, con esso compatibili. é il colpo di coda che innesta un processo incontrollabile. Il testardo atteggiamento del Prefetto che a tutti i costi scende a Sulmona per riaffermare l'autoritÁ dello Stato, sia che dipenda da un motu proprio del funzionario, sia che invece discenda da ordini superiori, frusta non tanto l'orgoglio quanto invece la miseria della gente di Sulmona. CiÔ che non ottengono le sinistre di Sulmona con la loro azione politica, e cioÉ penetrare nelle pieghe di quanto sta accadendo per impedire lo svolgersi di un'azione interamente guidata dal partito di maggioranza relativa ed usarne le contraddizioni interne per sconfiggerlo, lo ottiene il Prefetto con la testardaggine propria o impostagli.

Sta di fatto che in men che non si dica la cittÁ di Sulmona viene interamente invasa da manifestanti che gridano "Vattene via", "Non ti vogliamo". E, seguendo il prudente consiglio del Commissario Dattilo, il Prefetto non si reca immediatamente alla casa municipale, ma sale le scale del Palazzo Vescovile per 'rendere omaggio' a Monsignore. La popolazione, perÔ, non rispettando il dettato del Comitato di Difesa Cittadina, non rimane chiusa in casa, sciama per le strade e si raccoglie dinanzi al portone del Vescovado. Testimoni oculari raccontano che, impressionato dalla folla che andava crescendo su se stessa, l'autista del Prefetto, rimasto in auto fuori del Palazzo Vescovile, abbia ad un certo punto inveito contro i cittadini piÝ vicini dicendo loro: "Ma che vogliono 'sti pezzenti? non pagano manco le tasse e fanno tutto sto casino!, ha fatto male il Prefetto a dÁ al Comune le 400 mila lire" - (era di qualche giorno prima l'attribuzione una tantum della somma indicata dall'autista al Comune di Sulmona quale sussidio da erogare ai disoccupati che avrebbero spalato la neve dalle strade di Sulmona, n.d.r.). Se non si puÔ giurare sull'autenticitÁ dell'episodio É comunque certo che, provocati o meno, i sulmonesi presenti iniziano a bersagliare con palle di neve l'autista ed il veicolo del Prefetto.

A questo punto la situazione precipita. Al grido 'vattene, torna a L'Aquila' la folla circonda l'auto e fa per ribaltarla. L'autista si rifugia all'interno del Palazzo Vescovile ed il Prefetto, con una sua prima alzata d'ingegno (altre ne seguiranno), invece di chiamare le forze dell'ordine, chiede l'intervento di un reparto dell'esercito. Succede perÔ un fatto strano, al limite della farsa. Quando il plotone di soldatini giunge a Piazzale Carlo Tresca, davanti al Palazzo del Vescovado, viene accolto festosamente dai dimostranti; anzi l'ufficiale che li guida viene issato sulle spalle e portato in trionfo da alcuni di essi. Si grida 'Viva l'esercito! noi non ce l'abbiamo con voi perchÊ dovete rimanere qua'.

Di fronte alla situazione imprevista, il Prefetto sembra cedere alle ragionevoli richieste avanzate sia dal Commissario che dal Vescovo circa un suo immediato ritorno al capoluogo di provincia. Sale sulla macchina e si avvia su viale Roosevelt, mostrando l'intenzione di tornare sui suoi passi. Ma giunto fuori dalla vista della folla, compie una rapida inversione e, per vie traverse, entra in Palazzo San Francesco. La manovra, se sfugge ai dimostranti, non passa perÔ inosservata. Con una rapida corsa la folla tumultuante da Piazzale Carlo Tresca giunge al portone del Palazzo Comunale, in via Mazara, leggermente in ritardo rispetto al funzionario. Una trentina di dimostranti riesce ad incunearsi all'interno del ,Palazzo, un attimo prima che i vigili urbani chiudano il portone. Chiuso il portone É facile per i Vigili urbani ridurre alla ragione quella trentina di cittadini inferociti, intenzionati a linciare il Prefetto.

Intanto Palazzo San Francesco viene preso d'assedio. Secondo le risultanze agli atti del processo per i fatti di "Jamm' mÔ" si contano ormai tremila persone. E le campane delle cittÁ suonano tutte a distesa e non a 'morto', come aveva ordinato il Comitato di Difesa Cittadina. Frastornato dalle grida della folla, il Prefetto riceve nell'ufficio del Sindaco lo stato maggiore che ha ideato e messo in atto la strategia dei tre tempi in difesa del Distretto, dal Sindaco Mazara al colonnello Sardi De Letto. Questi signori, tutti costernati, porgono le loro scuse al funzionario governativo per la piega presa dall'andamento dei fatti. Il Prefetto rifiuta le scuse e, per far sentire tutto il peso della sua indignazione, rifiuta anche di stringere la mano ai membri del Comitato di Difesa Cittadina presenti, responsabili 'morali', a suo dire, di quanto sta avvenendo.

Intanto in via Mazara la folla preme e sta per abbattere il portone di Palazzo San Francesco. Il Prefetto sente stringersi intorno il cerchio e, non fidandosi delle forze dell'ordine locali, dirette tra l'altro dal Commissario Dattilo, sospettato di essere in combutta con il Comitato di Difesa Cittadina per lo zelo mostrato nel tentativo di dissuadere il Prefetto stesso dall'entrare in Sulmona, commette il secondo errore della giornata. Telefona ai Commissariati di P.S. e alle Caserme dei Carabinieri piÝ vicine, cioÉ a L'Aquila, Chieti, ,Pescara ed Avezzano, per chiederne l'aiuto, buttando immediatamente nella mischia altri reparti dell'esercito delle caserme sulmonesi in attesa che giungano gli aiuti richiesti. Il secondo intervento, dei soldati non si risolve come il primo. Questa volta i militari, senza usare la forza, ma con una certa decisione si pongono di presidio al Palazzo Comunale e tengono la posizione fino all'arrivo delle forze di polizia mobilitate dal Prefetto; dopodichÊ si ritirano in buon ordine.

Si arriva cosÍ alle 13,30, ora della prima carica della polizia sulla folla che per un attimo si disperde. CiÔ consente alla polizia ed ai carabinieri di attestarsi al Quadrivio, l'incrocio tra Corso Ovidio, Via Mazara e Via Roma. Palazzo San Francesco ed i suoi attuali e preoccupati inquilini tirano un respiro di sollievo, ma É per poco. Infatti le forze dell'ordine, guidate da ufficiali e funzionari che non conoscono le strade del centro di Sulmona, ritengono di aver bloccato ogni accesso al Palazzo municipale, non sapendo che in Via Mazara si puÔ arrivare da Piazza XX Settembre, passando per Via Carrese. Appunto da questa strada i dimostranti tornano innanzi al 'Comune infilandosi nel Palazzo prospiciente, palazzo Mazara, sede all'epoca dell'Istituto Tecnico per Geometri. All'interno della scuola i dimostranti raggiungono i balconi che guardano verso l'ala di palazzo San Francesco nella quale si trovano il Prefetto, il Sindaco e gli altri protagonisti ufficiali della vicenda. Sfasciate le suppellettili scolastiche, se ne ottengono oggetti da lancio con i quali vengono bersagliate tutte le persone visibili all'interno degli uffici comunali. Il Prefetto ed i suoi compagni di sventura sono perciÔ costretti a rifugiarsi nelle stanze piÝ interne del Comune e precisamente in quelle terranee, negli uffici dei vigili urbani. L'azione aggirante dei dimostranti, nel frattempo, ha scompaginato le difese apprestate dalle forze dell'ordine. Costretta a seguire i sulmonesi all'interno dell'Istituto Tecnico, la polizia lascia sguarnito il Quadrivio e la folla torna padrona della piazza. Si scatenano le prime sassaiole ed echeggia per la prima volta il grido di guerra che darÁ il nome alla rivolta: JAMM' MO. Questa espressione dialettale solo letteralmente É traducibile in lingua nel senso di 'andiamo adesso', andiamo in questo momento (l'immancabile umanista di provincia in quei giorni ricordava l'etimo latino "eamus mox"), in realtÁ nel linguaggio comune, ancora oggi conserva una serie di significati e sfumature variabili in accordo alle azioni della vita quotidiana durante le quali viene usata, ma di questo si dirÁ successivamente.

Dunque, JAMM' MO, e si innalzano le prime barricate. Tra le 15 e le 16 del 2 febbraio del 1957, la popolazione di Sulmona in rivolta erige due barricate nel tratto di Corso Ovidio compreso tra il Quadrivio e la quattrocentesca fontana del Vecchio, a ridosso dell'acquedotto medievale. Gli agenti di Pubblica Sicurezza ed i Carabinieri non riescono a tenere la piazza, ma di lÍ a qualche momento ricevono rinforzi da Pescara. Con la Mobile pescarese la forza pubblica riguadagna il terreno perduto; le due barricate vengono in parte abbattute ed in alcuni punti della cittÁ vengono formati dei posti di blocco. Diminuisce l'intensitÁ della rivolta, ma non a danno della qualitÁ. Il Centro Storico É per il momento interdetto ai civili; tutta la zona adiacente a Palazzo San Francesco É pattugliata dalla polizia, ma nelle case che si affacciano sulle strade del Centro storico c'É fermento: una pattuglia di giovani comunisti, coadiuvata da altri giovani che con la politica non avevano mai avuto che vedere, sta organizzando un attacco particolare alle forze dell'ordine. Madri, sorelle e conoscenti di questi giovani hanno messo sul fuoco grossi caldai d'acqua a bollire; l'uso che se ne vuol fare É evidente: si intende raffreddare la animositÁ della polizia con scrosci d'acqua bollente. Fortuna vuole che il leader di questi giovani si rechi da un ex capo partigiano, ufficiale dell'Esercito Italiano nella campagna di Grecia e di Albania, rimasto in quella zona dopo 1'8 settembre nei ranghi partigiani, Claudio Di Girolamo, capogruppo comunista al Comune. Di Girolamo si rende conto che l'uso di una tale arma potrebbe scatenare una reazione molto pericolosa da parte delle forze dell'ordine ed affannosamente si reca in tutte le case dove si sta preparando il piano bellicoso ed impedisce che si prosegua in tal senso.

Intanto il Prefetto pone in atto il primo tentativo di sfuggire alla trappola: il Marchese Mazara, dalle scale del portale meraviglioso di San Francesco della Scarpa, che dÁ su, Corso Ovidio, cerca di arringare i rivoltosi e di ridurli alla calma. L'azione costituisce in pratica un diversivo per consentire al Prefetto di uscire dal portone di via Mazara. La paura perÔ gioca un brutto scherzo al funzionario: temendo l'accorrere improvviso dei sulmonesi in rivolta, il dottor Morosi esita troppo sull'uscio del portone di Via Mazara tanto che qualcuno si rende conto della manovra e sottrae la folla al comizio improvvisato dal Sindaco. Di nuovo il Prefetto deve rintanarsi all'interno del Comune. Visto che non riesce a trarsi d'impaccio con la forza disponibile sulla piazza, il dottor Morosi ricorre di nuovo al telefono e questa volta chiede aiuto alla Celere di Roma e di Senigallia.

Nonostante queste brevi scaramucce, perÔ, la situazione rimane per alcune ore sostanzialmente ferma: le forze dell'ordine attestate nei punti strategici all'interno del centro storico ed i rivoltosi padroni del campo periferico dal quale di tanto in tanto e da diverse direzioni lanciano attacchi fulminei ai posti di blocco della polizia.

Con il passar del tempo, il Prefetto si spazientisce. Non intende assolutamente attendere l'arrivo previsto in nottata della Celere per andar via e di nuovo richiede l'intervento dell'esercito. Finalmente su un provvidenziale autoblindo il dottor Morosi riesce ad uscire da Sulmona, non senza costringere il pesante mezzo cingolato dell'esercito a scendere ,le scale che dal Largo Mazara portano verso la circonvallazione occidentale e, di lÍ, fuori Sulmona. Sono le 19,45 circa.

Vistisi sfuggire la preda, i rivoltosi si scagliano contro le forze dell'ordine rimaste. Riconquistano piazza XX Settembre ed il Quadrivio e vi ricostruiscono le barricate. Di nuovo la polizia carica e sgombra il Centro. Alla fine della giornata la forza dell'ordine É padrona del campo, ma intorno alle 22 in cittÁ si sparge la voce che sulla statale 17 sta per giungere la Celere di Senigallia i dimostranti abbandonano il Centro storico e corrono verso il Ponte di San Panfilo, attraverso il quale la Statale 17 confluisce nella cittÁ, con la ferma intenzione di bloccare l'autocolonna della Celere. Sul posto, in quel momento, É in transito un contadino con un carro carico di tronchi d'albero. Il legname viene immediatamente requisito per farne una barricata. Sul posto inoltre vengono rinvenuti alcuni fusti di catrame utilizzato per riparazioni al manto stradale. I dimostranti si impossessano anche del catrame e, dopo averne cosparso la barricata, danno fuoco al tutto. Per il momento la Celere non puÔ passare.

L'autocolonna che giunge di lÍ a poco, infatti, rimane bloccata immediatamente prima del Ponte di San Panfilo. Insieme ad essa, perÔ, provenienti da Roma, rimangono bloccati i primi inviati speciali dei giornali. Si tratta di firme illustri, ad evidenziare l'importanza che i fatti di Sulmona vanno assumendo per la cronaca nazionale: sono presenti nella notte tra sabato e domenica, alla periferia di Sulmona, Villy De Luca per "il Giorno", Igor Man e Alberto Consiglio per "Il Tempo", Giancarlo Del Re per "Il Messaggero", Lillo Sabatini per "Paese Sera" e Giovanni Lalli per "L'UnitÁ". Anche i giornalisti, come l'autocolonna della Celere, rimangono bloccati dalla barriera di fiamme. Ma, informato della presenza della stampa, un gruppetto di dimostranti, attraverso viottoli di campagna, aggira la barricata in fiamme e si mette in contatto con i giornalisti riuscendo a farli entrare in Sulmona percorrendo a ritroso i viottoli di campagna: l'opinione pubblica deve conoscere i motivi della rivolta sulmonese. L'intervento dei giornalisti servirÁ, tra l'altro, a far guadagnare qualche extra ai fotografi locali, sia professionisti che improvvisati: le foto vengono pagate molto bene; viene perÔ richiesto di rendere anonimi i volti dei sulmonesi che in esse compariranno.

In aiuto all'autocolonna della Celere di Senigallia interviene, mentre i gionalisti penetrano in cittÁ, la polizia che occupa il centro storico. Vengono chiamati i pompieri che spengono la barricata in fiamme e l'asfalto sul quale É stato versato altro catrame per un lungo tratto. II transito per l'autocolonna, sebbene con qualche difficoltÁ, É libero. Si tratta di superare il tratto di strada reso viscoso dal bitume bollente che si attacca alle ruote degli automezzi. Un ufficiale della Celere, in una intervista rilasciata a Giancarlo Del Re, dirÁ: 'Non É stato uno scherzo, dopo i tronchi incendiati, abbiamo trovato la pece. La strada ne era ricoperta. Pece fusa, bollente, molle come fango ed appiccicosa come lo zucchero filato. Se non avessimo potuto indurirla con l'idrante, i nostri mezzi non avrebbero raggiunto l'abitato di Sulmona. Era un 'lavoro perfetto'. Quasi all'alba, perciÔ, la forza dell'ordine penetra a Sulmona, mettendola interamente a presidio. Sono presenti a questo punto 600 tra poliziotti e carabinieri. I dimostranti ritengono piÝ opportuno sgombrare il campo ed andare a dormire.

Nella mattinata di domenica 3 febbraio, Sulmona si sveglia 'occupata'. Ieri il Prefetto ed oggi la Polizia. é un altro affronto. "Ma che vogliono, chi li ha mandati?" sono questi i primi commenti della popolazione impressionata dallo schieramento considerevole di forze. Il ricordo dell'occupazione tedesca, non ancora spento nella coscienza cittadina, viene richiamato spesso in quella giornata. Ed insieme a quel ricordo la presenza massiccia della polizia ne provoca un altro, piÝ vicino nel tempo: quello dell'Ungheria. Le scaramucce del giorno antecedente richiamano inoltre il ricordo della rivolta dei contadini sulmonesi contro la milizia fascista e le guardie del dazio del '29, in pieno regime. A furor di popolo in quell'occasione vennero bruciate le garitte daziarie che imponevano gabelle vessatorie ai contadini sulmonesi che, dalle campagne 'fuori porta' (al di lÁ delle mura cittadine) riportavano in cittÁ prodotti agricoli. la rivolta allora fu scatenata come risposta, si racconta, all'eccessivo zelo di una guardia daziaria che, affascinata dalle grazie di un'avvenente campagnola, aveva cercato di condurre a fondo una perquisizione non certo diretta a scovare merce da contrabbandare.

La fastidiosa presenza della polizia non impedisce, comunque, il tradizionale rito della passeggiata domenicale del dopomessa. Questa infatti procede sotto gli occhi inquisitori degli uomini del 7œ reparto Celere di Senigallia, del lœ reparto mobile della Celere di Roma, delle sezioni di Pubblica Sicurezza e Polstrada di Chieti, Teramo, Pescara e l'Aquila, del reparto Mobile dei Carabinieri di Chieti. Ma, nonostante ciÔ, sembra quasi tornata la calma. SenonchÊ le forze dell'ordine hanno ricevuto istruzioni nel senso di impedire qualsiasi assembramento, e per assembramento era da intendersi anche il conversare di tre persone. Quindi, al minimo accenno del soffermarsi a chiacchierare con due o tre amici, poliziotti e carabinieri intervengono con il loro poco complimentoso 'circolare, circolare!'.

La reazione della cittadinanza a questo atteggiamento É tra il sarcastico e l'ironico: "la senti l'aria?" si dicono l'un l'altro i sulmonesi che, fermatisi a commentare tra loro 'l'occupazione', i fatti del giorno precedente, vedono appressarsi con cipiglio da duro il celerino che invita "a circolare". "La senti l'aria?" É un ostentato quanto implicito "sfottÔ" all'uomo della polizia, una strizzata d'occhio, un avvertimento all'amico, tra l'infastidito e il furbesco: "occhio allo sbirro". Ma la tensione non lascia spazio all'ironia. Riferendo dello stato d'animo determinato in quella situazione, l'inviato de "il Messaggero", Giancarlo Del Re scrive: "la esasperazione popolare va lievitando con una velocitÁ vertiginosa. Operai, professionisti, ragazzi, gente di tutte le condizioni sociali, senza distinzioni di partito politico, tutti si trovano d'accordo nel dichiarare che l'azione della polizia É un affronto bello e buono": "Non siamo nÊ ladri, nÊ assassini e non vogliamo essere considerati come tali. Se abbiamo dimostrato contro il Prefetto Morosi É perchÊ abbiamo subito una ingiustizia. Andato via il Prefetto, non abbiamo piÝ nulla da dire. PerchÊ farci trovare la polizia in casa?".

Questo clima di tensione cresce su se stesso durante tutta la mattinata ed É evidente che lo stretto contatto tra la popolazione e la forza pubblica É destinato a degenerare alla prima occasione; e questa si presenta nel pomeriggio a piazza XX Settembre. Qui la polizia occupa tutta la parte piÝ interna della piazza ed É disposta sulle scale del Liceo Ginnasio Ovidio. Un gruppo di giovani si ferma sul lato opposto, dalla parte di Corso Ovidio, a fronteggiarla con strafottenza ed ostentando un deciso rifiuto di ottemperare al divieto di riunirsi in gruppo. Tra essi si aggirano con notevole apprensione il Marchese Mazara e l'avvocato Autiero che si offrono di pagare il biglietto del cinema a chi abbandonerÁ la piazza. "Non andiamo da nessuna parte - rispondono loro con decisione - sono loro, i celerini, che debbon andar via da Sulmona, ed anche subito".

In questa situazione, a qualcuno viene in mente di giocare una beffa alla Celere. Ad un segnale convenuto tutti i giovani raccolti in piazza XX Settembre, sul lato di Corso Ovidio, cominciano a guardare con insistenza e ad indicare un punto sul tetto del Liceo Ginnasio Ovidio, l'edificio immediatamente alle spalle dello schieramento delle forze dell'ordine. Una volta richiamata l'attenzione della Celere, i giovani cominciano a lanciare, sempre gesticolando, un segnale di diverso significato: butta giÝ, che tanto non ti vedono!, rivolto ad un interlocutore che i Celerini non possono vedere per la loro posizione troppo a ridosso dell'edificio. Per individuare il fantomatico destinatario dei messaggi, la polizia dovrebbe spostarsi in avanti nella piazza e quindi venire a contatto con i giovani sbeffeggiatori. D'altra parte, rimanere al di sotto del tetto dal quale da un momento all'altro possono piovere tegole non É, senz'altro, una situazione tranquillizzante. E questo gioco dura fino a quando un poliziotto non reggendo alla tensione spara verso i giovani un candelotto lacrimogeno.

é il segnale della riapertura delle ostilitÁ. Al grido di "Jamm' mÔ" sui reparti della celere piove una sassaiola cosÍ fitta che debbono disperdersi. Nell'occasione ci scappa il primo ferito grave; un celerino perde un occhio in seguito ad una sassata. Mentre la Celere cerca di riorganizzarsi avviando un carosello con gipponi, sulla statua di Ovidio, che domina piazza XX Settembre, il solito ignoto pone un cartello recante la scritta "Fuori la polizia da Sulmona. Siamo un paese democratico, tornatevene a casa vostra". Gli scontri sono piÝ duri della giornata precedente. Sebbene dispongano di 600 uomini sulla piazza, gli ufficiali ed i funzionari che dirigono le operazioni non fronteggiano la situazione. Si trovano di fronte un'intera popolazione inferocita che mostra una spiccata e spontanea attitudine alla guerriglia urbana e che adotta tattiche inconsuete alle quali la Celere di Roma e Senigallia, aperta dominatrice delle manifestazioni di piazza in aree metropolitane, non É abituata.

Giocano a favore dei sulmonesi in rivolta la ristrettezza degli spazi nei quali i "caroselli" dei gipponi non possono produrre g1i effetti intimidatori loro propri, la non conoscenza, da parte di polizia e Carabinieri, del luogo dell'azione, l'adesione incondizionata di tutta la popolazione alla rivolta: persino il parroco di Santa Chiara avrÁ occasione di malmenare due celerini che stavano inseguendo verso la chiesa due chierichetti; per non parlare delle donne che, con le borse della spesa, raccolgono pietre per rifornire gli uomini dimostratisi espertissimi frombolieri. A questo proposito bisogna annotare, nello svilupparsi del dramma, una nota farsesca. Di tanto in tanto, durante la mischia, la Polizia sente echeggiare, accanto al grido Jamm' mÔ, un altro grido: "Alla carica"; e, mentre si prepara a sostenere un attacco piÝ duro annunciato dal classico grido di incitamento, vede dileguare dinanzi a sÊ gli attaccanti. In realtÁ quel grido É il segnale dei rivoltosi che invita a rifornirsi di muni2Jioni, a "caricarsi" di pietre per poter sostenere lo scontro con la polizia.

La rivolta tocca il suo acme parossistico al calar del sole; ed il momento É veramente drammatico perchÊ segna lo sbando piÝ completo delle forze dell'ordine. Accade che, accanto al rumore che normalmente accompagna una rivolta, se ne registra un altro, cupo, assordante, catastrofico e, quello che É peggio, di natura inspiegabile. A questo rumore si accompagna il suono di campane impazzite a distesa e il tutto coincide con l'assalto piÝ duro dei frombolieri e dei rivoltosi che infrangono i parabrezza di numerosi camion; che sfondano a colpi di piccone i pneumatici di alcune jeep; che scoperchiano i tombini di ghisa della fogne e li spezzano per fame oggetti da lancio per impedire agli automezzi della polizia di circolare liberamente; che riescono a rovesciarne alcuni e a disarmarne gli occupanti. Il terribile rumore, si scopre immediatamente, É causato dal rotolamento di una cisterna metallica destinata a contenere la nafta da riscaldamento. E' un cilindro di lamiera lungo cinque o sei metri e del diametro di un metro e mezzo o due, usato come barricata semovente dietro la quale si riparano numerosi dimostranti che, ininterrottamente, lanciano pietre (nel frattempo erano stati disselciati "i Cordoni", vale a dire i gradoni della scalinata dell'acquedotto medievale tra Piazza Gariba1di e Corso Ovidio). E' il classico attacco combinato dei mezzi blindati e della fanteria; una tattica di guerra, non c'era proprio nulla da dire.

L'effetto psicologico complessivo derivante dalla somma delle singole azioni dei rivoltosi deve essere stato disastroso sulle forze dell'ordine impegnate a sedare la rivolta: É il momento di maggior trionfo di Jamm' mÔ, ma segna anche l'inizio della sconfitta dei sulmonesi in rivolta.

Lo scontro avrebbe potuto essere piÝ cruento. Nelle mani di molti dimostranti erano cadute le armi sottratte agli uomini della forza pubblica. Non solo. Un gruppo di militanti comunisti, incrementato da altri giovani di diversa estrazione politica e comunque non politicamente impegnati (quegli stessi che avevano fatto preparare caldai di acqua bollente da riversare sulla polizia durante gli scontri del giorno precedente), dalla specialitÁ, acquisita durante gli scontri in atto, di rispedire al mittente i candelotti lacrimogeni, trae l'idea di usare delle bottiglie "molotov" e ne confeziona una notevole quantitÁ utilizzando, tra l'altro, la benzina di automobili parcheggiate o di passaggio. Predisposte queste tremende munizioni il gruppo, per fortuna, va a prendere ordini dal suo supposto capo naturale, Claudio Di Girolamo, come aveva fatto nell'occasione precedente. Anche questa volta il leader comunista tronca sul nascere questa azione di guerriglia urbana che potrebbe portare la rivolta a piani di scontro superiori anche alle stesse volontÁ dei rivoltosi, e dal momento che ci si accerta che alcuni poliziotti sono stati disarmati, ad arte viene diffusa una provvidenziale bugia secondo la quale le leggi considerano "legittimo", durante le rivolte di qualsivoglia natura, l'uso di armi quali pietre e bastoni, essendo invece assolutamente proibito e punito nelle forme piÝ dure l'uso di armi da fuoco e delle bottiglie molotov.

Questo provvidenziale raggiro, raccolto e diffuso tra i rivoltosi dai cittadini piÝ responsabili, impedisce l'uso delle molotov e delle armi sottratte alla forza pubblica. Nella sentenza pronunciata il 6 aprile del '66 dalla terza sezione penale del Tribunale di Roma, si fa cenno di colpi di pistola sparati dai dimostranti nel pomeriggio del 3 febbraio. A questo proposito É necessario dire che questa eventualitÁ non puÔ essere certo esclusa, ma nello stesso tempo bisogna aggiungere che tutti i sulmonesi che parteciparono alla rivolta hanno sempre fatto un punto d'onore nell'affermare che da parte loro non si sparÔ nemmeno un colpo di arma da fuoco, nÊ si dette luogo ad episodi di saccheggio; solo due esercizi commerciali ebbero le vetrine infrante, ed i loro proprietari, molto noti in cittÁ, hanno sempre affermato, in piÝ di un'occasione, che l'unico danno subito in quelle giornate non risultÔ essere altro che la rottura delle vetrine.

Tornando alla dinamica della rivolta, c'É da registrare che, nel momento in cui i funzionari e gli ufficiali che dirigono le operazioni si rendono conto che i dimostranti stanno per avere il sopravvento, ordinano di passare ad un'azione repressiva piÝ pericolosa: si comincia a sparare ad altezza d'uomo. I rivoltosi percepiscono il salto di qualitÁ nell'azione di polizia e non accettano i nuovi livelli di scontro. Si invertono i ruoli: le forze dell'ordine, dapprima sbeffeggiate e braccate, si trasformano in cacciatrici. I rivoltosi vengono inseguiti e manganellati dappertutto. Il colpo di grazia alla rivolta viene, perÔ, inferto quando, alle 19,30, Michele Accursio, un'apprendista falegname, si accascia a terra ferito da un colpo di moschetto. Siamo a Piazza del Carmine. Il giovane ventenne presenta due ferite, all'avambraccio sinistro ed al fianco sinistro, procurategli dallo stesso proiettile esploso da un moschetto in dotazione alle forze di polizia. In seguito a questo episodio, in meno di mezz'ora la forza pubblica diviene padrona del campo. Vengono immediatamente istituiti posti di blocco. I poliziotti da braccati si trasformano in bracconieri ed inseguono, come abbiamo giÁ detto, i rivoltosi dappertutto. I piÝ fortunati riescono a guadagnare le proprie case, e di lÍ, da dietro le persiane accostate, dando indicazioni a quelli rimasti in strada, indicano i portoni nei quali nascondersi, avvertono i fuggiaschi del sopraggiungere della polizia, ospitano gli amici. Ma una grossa parte dei partecipanti a:11a rivolta cade nelle maglie della polizia: i pochi bar del centro rimasti aperti, il cinema Pacifico, l'ospedale dell'Annunziata sembrano provvidenziali rifugi, ma non É cosÍ; si trasformano in vere e proprie trappole e chi vi si rifugia viene stanato a colpi di lacrimogeni. Questo accade al Cinema Pacifico, al Bar Tre Rose e perfino all'ospedale, allora ubicato nel magnifico Palazzo dell'Annunziata. Se dai locali pubblici sciama una folle boccheggiante, con gli occhi ed i polmoni irritati dai gas, quanto accade all'ospedale assume tinte drammatiche: il fumo dei lacrimogeni raggiunge le corsie provocando vere e proprie scene di panico tra i ricoverati. I medici scendono nell'androne d'ingresso e si trovano in presenza di un parapiglia immane; É in atto un corpo a corpo tra la polizia ed alcuni rivoltosi che resistono all'arresto. L'intervento dei medici consente ad alcuni di sfuggire all'arresto, mentre i poliziotti vengono ricacciati fuori infuriati.

Ormai la caccia all'uomo comincia a dare i suoi risultati: fino a tarda sera verranno "messi dentro" 44 cittadini ,di Sulmona; bisogna dire che, perÔ, non tutti avevano partecipato alla rivolta. In pratica gli arresti cominciano quando ormai la rivolta sta percorrendo il tratto decrescente della sua parabola ed É estremamente difficile cogliere dei rivoltosi in flagrante delitto. CosÍ molti cittadini vengono arrestati solo perchÊ hanno le mani sporche; prova "irrefutabile", questa, secondo la polizia, 'dell'aver lanciato sassi. Ma anche chi ha le mani pulite viene arrestato: i tutori dell'ordine stabiliscono che ha avuto tutto il tempo di lavarsele per sfuggire cosÍ alla giusta punizione: l'arresto. Tutti verranno incriminati per i reati di resistenza, oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, radunata sediziosa, violenza e danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato. Con queste imputazioni vengono arrestate anche persone, semplici passanti, che rientravano a Sulmona dopo essere stati a pranzi nuziali o ad assistere alla partita in trasferta della squadra del cuore. Tra gli arrestati la maggioranza É costituita da uomini del Partito Comunista e da cittadini tra i meno abbienti; tra essi É compreso Alfieri Di Girolamo, fratello del leader comunista, "stretto" in prigione solo perchÊ scambiato per il proprio familiare. ,Mentre si disperdono gli ultimi gruppi di cittadini la polizia ode grida minacciose ripetute piÝ volte: "A Sulmona ci sono 800 doppiette!". La minaccia É chiara e le forze dell'ordine ne terranno conto, vedremo in seguito come.

Il primo bilancio della rivolta, che rimarrÁ poi come ufficiale, É quello che si compie in nottata: su 580 uomini della forza pubblica presente si registrano 36 feriti, di cui 3 ufficiali, e 151 contusi. In totale la rivolta ha fatto sentire il suo sapore amaro ad un rappresentante delle forze dell'ordine su 3. I sulmonesi feriti risultano essere 22. Sono, perÔ, senz'altro di piÝ perchÊ sono molti coloro che non ricorrono al pronto soccorso per non correre il rischio di essere denunciati.

Nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio a Sulmona si registrano parecchi movimenti. I 44 fermati sono stati portati presso il Carcere Giudiziario di San Pasquale. Dapprima gli Agenti di Custodia ed i loro dirigenti, poi le stesse forze dell'ordine convengono che É estremamente pericoloso tenere incarcerati a Sulmona gli arrestati durante la rivolta. Quello che si teme maggiormente É un assalto al carcere e la soluzione piÝ ovvia É quella di cercare un'altra sede per gli arrestati. Nella notte, infatti, una autocolonna parte alla volta di Chieti, trasferendovi i presunti rivoltosi. é la prima decisione sensata adottata da chi detiene la responsabilitÁ dell'ordine pubblico a Sulmona in questi giorni. Infatti all'alba del giorno successivo una folla muta, composta completamente da donne, quelle degli arrestati, si radunerÁ spontanea davanti al cancello del carcere e vi rimarrÁ per molte ore anche quando avrÁ saputo del trasferimento dei loro congiunti nel Carcere di Chieti, avvenuto nella notte. Molti corrispondenti, evidentemente epigoni del realismo letterario verghiano, si lasceranno andare ad amene, a dir poco, descrizioni di questa folla.

Ma quella notte accade qualcos'altro: la rivolta, sebbene sconfitta sul campo, non É stata domata. Sempre quel gruppo di giovani rivoltosi che nei giorni precedenti aveva preparato e fatto preparare caldai d'acqua bollente e bottiglie molotov, va a bussare di nuovo alla porta di Claudio Di Girolamo. L'assonnato capogruppo comunista si vede proporre un piano di vero e proprio sabotaggio. In una intervista rilasciata sull'argomento, il professor Di Girolamo ha dichiarato: "Nella notte tra domenica 3 e lunedÍ 4 febbraio, venni svegliato verso le due o le tre da un gruppo di giovani i quali, quasi fuori di sÊ, mi dissero che si erano procurati delle polveri nere, della dinamite e volevano il mio consenso per minare un ponte della ferrovia sulla tratta Sulmona-L'Aquila e precisamente tra Sulmona e Pratola Superiore; anche allora dovetti costringere alla ragione questo gruppo di giovani che prendeva le piÝ svariate iniziative in questa lotta rivoltosa". L'episodio É stato confermato dal professor Carlo Autiero, che prenderÁ il posto di capogruppo consiliare comunista quando Di Girolamo uscirÁ dal PCI in disaccordo con gli esponenti locali e provinciali di questo partito. Il professor Autiero, allora appena iscritto al PCI, ha ricordato come quel gruppo di giovani si procurÔ la dinamite sottraendola al deposito di una cava di sabbia da costruzione, poco distante da Sulmona.

Sempre nella notte tra il 3 ed il 4 i responsabili dell'ordine pubblico a Sulmona prendono un'altra decisione che si rivelerÁ molto saggia e sdrammatizzante. La polizia ed i carabinieri inviati a Sulmona vengono concentrati tutti nella caserma "Cesare Battisti". L'acquartieramento della forza pubblica nella caserma militare viene deciso perchÊ ci si era reso conto che la presenza della polizia era vista in quei giorni come una provocazione. Un ruolo particolare deve aver giocato, inoltre, il minaccioso grido risuonato nelle strade di Sulmona sul finire della rivolta: "a Sulmona ci sono 800 doppiette", esplicita minaccia di scontri, questa volta a fuoco. Sta di fatto che nella mattinata del 4 febbraio, in giro per Sulmona si vedono solo le divise amiche dei vigili urbani. Anche ciÔ contribuirÁ a calmare le passioni.

Ma il fatto che spegnerÁ completamente il fuoco della rivolta É la liberazione in giornata degli arrestati. Molto presto, nella mattinata, il sostituto Procuratore della Repubblica del Tribunale di Sulmona, il dottor Salvatore Sambenedetto, molto piÝ lucido e freddo del Prefetto Morosi, non perde tempo e si reca a Chieti per interrogare gli arrestati della rivolta. Nonostante siano 44, il giudice riesce ad interrogarli tutti e giunge a liberarli in serata. é una mossa ispirata. Non sempre lo Stato, nelle sue multiformi espressioni istituzionali, si dimostra arrogante. E ciÔ viene apprezzato dalla popolazione, che si libera delle passioni rivoltose.

La rivolta, perÔ, É stata un fatto grave che colpisce l'opinione pubblica nazionale. La stampa nazionale, quotidiana e non, vi si butta a corpo morto ed i fatti di "Jamm' mÔ", tengono banco insieme allo scandalo Montesi-Piccioni.

L'effetto politico piÝ immediato dei fatti di "Jamm 'mÔ" {altri ce ne saranno nel senso voluto da chi fin dal '54 innescÔ la "querelle" del Distretto, ma di questo parleremo in appresso), É quello di far intervenire il Parlamento sull'intera vicenda. Il 26, 27 e 28 marzo dello stesso anno, la Camera discute diverse mozioni presentate da diversi partiti politici.

Questa scadenza trova Sulmona vigile. Fin dalle prime ore del 28 in cittÁ si registra un insolito movimento; non É per prepararsi alla consueta giornata lavorativa, ma per partire alla volta di Roma. Su due pullman e circa settanta automobili, 500 cittadini partono per andare ad assistere alla seduta parlamentare in cui si svolgerÁ un dibattito sulle due giornate della rivolta e sulla situazione economica e sociale del comprensorio sulmonese. In cittÁ la popolazione, come É ormai divenuta consuetudine, pone in atto uno sciopero generale composto e compatto. Alle 7 in punto l'autocolonna parte. Le parole del dottor De Monte, a proposito della "marcia su Roma", pronunciate nel comizio tenuto al Teatro Comunale dopo il notturno trafugamento del Distretto, si sono inopinatamente realizzate. Dice il colonnello Sardi Del Letto a Lillo Spadini di "Paese Sera" che lo intervista: "Andiamo a Roma educatamente, riceveremo, grati, i biglietti di ingresso per la tribuna della Camera ed assisteremo alla seduta in contegnoso silenzio. Due sono le mozioni che concernono i problemi di Sulmona: una presentata dalla Democrazia Cristiana e la seconda da tutti gli altri settori. Ci attendiamo che le fondino [sic] insieme per risolvere piÝ efficacemente e con spirito unitario la angosciosa situazione della nostra cittÁ e delle zone circostanti". Assieme al colonnello Sardi De Letto, guida l'autocolonna l'avvocato Giovanni Autiero. Quest'ultimo, abbandonata la Democrazia Cristiana in seguito alle vicende del '54 e schieratosi con il partito liberale, ha preso accordi con il capogruppo comunista Di Girolamo che avrebbe dovuto attendere l'autocolonna sul piazzale di Montecitorio con i permessi d'entrata alle tribune del pubblico in aula.

Lungo la strada l'autocolonna É fatta segno di particolari attenzioni da parte di numerose pattuglie della Polizia stradale. Le soste non vengono consentite; col pretesto di imporre il rispetto degli spazi regolamentari di marcia tra una vettura e l'altra, solerti agenti tentano di spezzare l'autocolonna. Infine, a 7 chilometri da Roma, l'ultimo intoppo: reparti del primo battaglione della Celere romana, guidati dal Questore Marchetti, hanno formato un posto di blocco per la sola autocalonna sulmonese. Questa non puÔ andare avanti ed entrare nella cittÁ, perchÊ, comunica ufficialmente il Questore, intralcerebbe il traffico. I 500, É mezzogiorno, avrebbero dovuto giÁ trovarsi a Montecitario, dove li aspetta impaziente Claudio Di Girolamo che, insieme al deputato comunista Giulio Spallone, ha raccolto presso i parlamentari d'i tutti i partiti circa 400 permessi per l'ingresso alle tribune dell'aula parlamentare. Ma l'autocolonna rimane bloccata per alcune ore al 7œ Km della Salaria, nei pressi dello stabilimento della Squibb. CosÍ il professor Di Girolamo, in una intervista, ricostruisce quei momenti: "Non vedendo giungere i miei concittadini all'ora fissata, pensai ad un semplice ritardo; ma i minuti e le ore passavano e cominciai a preoccuparmi, per cui mi affrettai ad andare loro incontro. Quando li raggiunsi trovai una situazione di scontro imminente tra loro e la polizia. Il Questore assolutamente non voleva far entrare in Roma questa autocolonna e, come mi si disse successivamente, un gruppo di nostri concittadini era andato a chiedere man forte agli operai del vicino stabilimento della Squibb nel caso di scontri con la polizia. Gli operai assicurarono il loro intervento "nel caso che dovesse succedere qualcosa". Quindi anche qui le cose si stavano mettendo male. PerchÊ questo? sempre come mi riferirono successivamente, alcuni poliziotti della celere romana, lÍ presenti, erano stati a Sulmona nelle giornate dei moti ed avevano ricevuto, diciamo cosÍ, un "sacco di mazzate"; erano stati, cioÉ, abbondantemente malmenati. Qualcuno di questi, perciÔ, avrebbe detto: 'Adesso ve la facciamo pagare; qui siamo in ambiente aperto, non potete scappare nei vicoli e nei portoni come avete fatto a Sulmona'. La situazione stava per precipitare; l'onorevole Spallone chiamÔ da un telefono vicino al posto di blocco, piÝ volte, il ministro degli Interni che perÔ si faceva negare. Ad un tratto sentii dire dal Questore che avrebbe consentito il transito solo ai possessori di un permesso di entrata a Montecitorio; ed io, arrivato come la manna dal cielo, dissi: "Signori miei, se la situazione É questa, io ho 400 permessi per entrare alla Camera". 'Montai, quindi, sul cofano di una macchina e, facendo l'appello, distribuii i 400 permessi. Allora la polizia si sentÍ disarmata moralmente e materialmente perchÊ di fronte ai permessi non potÊ fare altro che concedere il passi".

L'autocolonna giunge solo alle 15,30 sul piazzale di Montecitorio. Ma anche qui trova ostacoli. Il regolamento della Camera consente l'ingresso alle tribune riservate al pubblico solo ai cittadini decorosamente vestiti e ciÔ significava, nella prassi, indossare giacca e cravatta. In questa condizione si trovano solo alcuni sulmonesi; la maggior parte di essi veste decorosamente, ma senza cravatta. Nemmeno di fronte a questo ostacolo imprevisto ci si perde d'animo; da qualcuno parte un astuto suggerimento: bisogna sciogliersi un laccio da una scarpa ed indossarlo sul colletto della camicia a mo' di cravatta facendone un fiocco. Infiocchettati di stringhe e messa su, per l'occasione, anche una notevole faccia di bronzo, una buona parte dei componenti dell'autocolonna si presenta ai commessi della Camera, i quali, pur potendo contestare quell'atteggiamento provocatorio, chiudono un occhio e lasciano passare. Nonostante l'ennesima trovata, perÔ, dei 500 solo 200 riescono ad accedere alle tribune di Montecitorio, gli altri rimangono sul piazzale. Sulle tribune i commessi della Camera si affannano a spiegare che il regolamento non consente al pubblico nÊ di assentire nÊ di dissentire, in nessun modo, con gli interventi del dibattito parlamentare.

Queste istruzioni vengono rispettate durante tutta la discussione, tranne che in due occasioni: alla fine del discorso del comunista Corbi, che viene applaudito, e quando il democristiano Spataro accenna alle "buone intenzioni del Governo" nei confronti di Sulmona. Spataro testualmente afferma, rivolgendosi alle tribune: "Quando si É trattato di appoggiare le vostre iniziative, il Governo É sempre stato in prima fila. Lo dimostra il fatto che i ministri avevano aderito con entusiasmo alle celebrazioni del bimillenario della nascita di Ovidio; l'adesione É stata ritirata quando i sulmonesi hanno fatto la rivoluzione per il Distretto Militare". Queste parole vengono sottolineate, sulle tribune, da un mormorio ironico sfociato poi in una aperta risata, arginata a fatica da11'intervento deciso dei commessi che si affannano a riportare l'ordine tra le incomposte fila dei sulmonesi.

Alla fine del dibattito la Camera approva una unica mozione che verrÁ detta Corbi-Spataro, dai nomi dei primi firmatari. La sottoscrizione unitaria da parte di comunisti e di democristiani, oltre che di esponenti delle altre formazioni politiche, trova la sua motivazione non tanto nell'identica intenzione o in un identico modo di vedere dei due gruppi, quanto invece nel fatto che di fronte alla estrema miseria e al sottosviluppo del comprensorio sulmonese e di fronte alla compattezza della protesta, sarebbe stato controproducente far trasparire anche in quell'occasione le ragioni della guerra fredda. D'altra parte gli estensori materiali della bozza della mozione sono stati i sulmonesi stessi e cioÉ il colonnello Sardi De Letto, liberale, l'avvocato Giovanni Autiero, liberale, ed il professor Di Girolamo, comunista. Nella stesura approvata dalla Camera la mozione recita testualmente: "La Camera, considerate le condizioni particolarmente depresse dell'Abruzzo e del Molise, per la mancanza per molti decenni delle necessarie provvidenze statali e per le immani distruzioni della guerra, pur riconoscendo quanto É stato fatto fino ad oggi con la parziale riparazione dei danni bellici e con le nuove opere realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno, e con benefici delle altre provvidenze legislative, richiama l'attenzione del Governo sull'iniziativa assunta dalle Amministrazioni Provinciali delle cittÁ Capoluogo e dagli Enti Provinciali per il Turismo dell'Abruzzo e Molise, per l'elaborazione dei piani di sviluppo e di potenziamento dell'economia regionale, perchÊ adotti ulteriori provvedimenti necessari al progresso dell'Abruzzo e Molise, in analogia a quanto fatto per altre regioni meridionali; FA VOTI AL GOVERNO: 1) perchÊ, in esecuzione della nuova legge per la Cassa per il Mezzogiorno, faccia predisporre il piano di integrazione, e, ove É necessario, di ampliamento delle iniziative in corso per i vari settori, in modo speciale in quelli dell'agricoltura e dell'industria; 2) perchÊ preveda particolari iniziative a favore della regione Abruzzo nel piano quadriennale IRI-ENI; 3) perchÊ curi la sollecita applicazione della legge sui sovraccarichi elettrici ed aiuti i consorzi dei bacini imbriferi a promuovere iniziative di carattere industriale; 4) perchÊ, attraverso il Ministero delle Partecipazioni Statali, venga riattivato lo stabilimento di Pratola Peligna, tenendo conto della disponibilitÁ delle fonti di energia e della presenza in loco di minerali, come la bauxite, di particolare importanza; 5) perchÊ finanzi i lavori di bonifica del comprensorio della Vallata di Sulmona, appena adempiute le formalitÁ amministrative e presentati dagli enti interessati i progetti relativi, ed esamini la possibilitÁ di dare sollecito inizio a tutti quei lavori che risultassero immediatamente eseguibili; ed INVITA la commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni dei lavoratori a svolgere una particolare indagine nella cittÁ e nella zona di Sulmona.

Ma anche in questo momento lo Stato, in una delle sue massime articolazioni, la Camera dei Deputati, non seppe dare altro ai sulmonesi, che avevano cercato di resistere nella forma che abbiamo visto alle deficienze e alle rapine di una politica clientelare di sottogoverno, che parole. Ed anche in quella occasione i Sulmonesi avrebbero potuto rendersi conto di quanto andava accadendo, solo che avessero prestato maggiore attenzione a quanto si diceva nell'aula di Montecitorio da parte di Giuseppe Di Vittorio. Ecco quanto disse nella dichiarazione di voto del gruppo parlamentare comunista, il grande sindacalista: "Signor Presidente, onorevoli colleghi, dichiaro di votare a favore della mozione. Ho desiderato fare questa dichiarazione per esprimere la piena, fraterna e calorosa solidarietÁ della Confederazione Generale Italiana del Lavoro con i lavoratori di Sulmona e con il popolo d'Abruzzo, regione che É fra le piÝ povere del Mezzogiorno d'Italia".

"Desidero esprimere il plauso di tutti i lavoratori italiani ai loro fratelli di Sulmona per avere essi raggiunto un pieno accordo, una piena unitÁ e solidarietÁ nella lotta tesa a far sentire la loro protesta contro una misura che poteva e doveva essere ritirata, e per esigere provvedimenti efficaci, atti ad alleviare la miseria endemica di cui soffre la popolazione. Questa unitÁ raggiunta dai lavoratori, tra le masse popolari di Sulmona, ha avuto il suo riflesso in questa Camera. é stato infatti concordato fra i vari gruppi un testo di mozione che raccoglie sostanzialmente le rivendicazioni del popolo di Sulmona e del popolo abruzzese, e contiene impegni precisi di misure piÝ o meno adeguate ai bisogni piÝ immediati di elevazione della grave situazione economica di Sulmona e in parte dell'Abruzzo".

"Ci auguriamo che questa unitÁ, manifestatasi pure nell'accordo sul testo della mozione, si manifesti e si sviluppi ancor piÝ nelle masse popolari, nell'Abruzzo, in tutto il Mezzogiorno e nel nostro paese. Soprattutto desidero, nel concludere, richiamare l'attenzione dei lavoratori e delle masse popolari dell'Abruzzo, sulla necessitÁ di essere vigilanti affinchÊ gli impegni che sono stati assunti nella mozione siano realizzati. Soltanto se le masse popolari unite vigileranno, potranno ottenerne l'integrale applicazione. Purtroppo abbiamo in proposito una lunga esperienza negativa, dalla quale risulta che molti impegni, molte mozioni, molti ordini del giorno approvati in Parlamento, non hanno avuto nessuna pratica realizzazione nei fatti, nessuna attuazione nel paese. PerciÔ, auspico che le masse lavoratrici e popolari d'Abruzzo svilupperanno la loro unitÁ in una azione concorde e vigorosa, che riesca ad esigere l'applicazione integrale degli impegni che sono contenuti nella mozione che la Camera si accinge a votare. é in questo spirito che noi voteremo a favore della mozione".

Non sono le parole di un profeta, ma quelle di un uomo di lunga e profonda esperienza che conosce la sostanza della politica del partito di maggioranza relativa. I sulmonesi, invece, forse per la crudezza della lotta sostenuta e nonostante le numerose esperienze negative registrate, si accontentano di questa mozione che testimonia solo la cattiva coscienza dello Stato nei confronti delle popolazioni meridionali completamente abbandonate a se stesse, quando non usate per confermare ed estendere il potere e la base clientelare della Democrazia Cristiana.

Dal 28 marzo del 1957, data della votazione della mozione, dovranno poi passare circa 10 anni prima che l'intera vicenda di "Jamm' mÔ" e dei fatti ad essa connessi possano considerarsi definitivamente chiusi. Solo nel '66, infatti, si celebra l'appello nei confronti dei 70 imputati per la rivolta popolare.

"Le provvidenze legislative" della mozione Corbi-Spataro vennero puntualmente disattese; ma la giustizia seguÍ il suo corso (nemmeno tutto per la veritÁ, perchÊ ancora oggi un imputato di quel processo attende di essere giudicato).

 

jamm06.jpg (77986 byte)

L'EPOPEA DI JAMM' Mô

 

"Jamm' mÔ", per i sulmonesi, É divenuto un'epopea. Quella rivolta É parte della storia di Sulmona ed alimenta tutta un'aneddotica spesso non direttamente vissuta da chi la favorisce.

é accaduto infatti che un episodio, verosimilmente vissuto da un numero limitato di protagonisti, É stato raccontato all'estensore di queste note, in versioni piÝ o meno simili, da un numero di presunti protagonisti di gran lunga superiore a quello di coloro che avrebbero avuto, in effetti, l'occasione di partecipare all'azione narrata. Un osservatore superficiale o poco attento potrebbe parlare di millanteria. Ma il fenomeno É troppo diffuso e merita un approfondimento maggiore, partendo dalla considerazione secondo la quale quei fatti sono divenuti patrimonio della storia e della cultura sulmonese...

"Jamm' mÔ" É espressione dialettale che alcuni cittadini, forniti di un buon bagaglio retorico e pedante, si affrettarono a tradurre, subito dopo Le giornate del 2 e 3 febraio del '57, con l'equivalente in lingua "andiamo adesso", non mancando di avvertire che derivava dal latino 'eamus mox'. La trasposizione del dialetto in italiano, condita e nobilitata, piÝ che da etimi latini, da quel pizzico di latinorum che non guasta mai, sebbene formalmente accettabile, non rende la ricchezza del suo significato nella lingua parlata. "Jamm' mÔ" É, infatti, un'incitazione propria del mondo contadino della Vallata Peligna. Viene usata ancora oggi, sebbene con una frequenza minore che nel passato, generalmente come incitazione ad un collettivo, ma puÔ essere rivolta anche ad un singolo individuo, nel compimento di uno sforzo e per dare un ritmo allo stesso se É continuato nel tempo. Per render meglio l'idea, É la traduzione in dialetto sulmonese del classico grido di lavoro "oh issa". Inoltre, il grido "Jamm' mÔ" riveste la caratteristica di incitare a produrre il meglio di sÊ nell'azione che si sta compiendo. Questo aspetto particolare dell'espressione fa sÍ che essa dal mondo del lavoro sconfini nel sociale, in maniera generalizzata. PuÔ essere rivolta infatti al bambino che sta compiendo i primi passi e si muove incerto o all'uomo che, durante il gioco della classica "passatella", nelle ancora piÝ classiche cantine, deve scolare d'un solo fiato un intero fiasco di vino. Usata nelle giornate del 2 e 3 febbraio, perciÔ, poteva avere un solo significato: "picchiate il piÝ duro possibile". Era in pratica il grido di guerra della rivolta popolare. Popolare e non borghese.

Infine, tra le molteplici facce del significato di "Jamm' mÔ", É necessario segnalarne un'altra: quella per la quale tale espressione significa incitare alla vittoria chi sta compiendo un"azione di forza e di coraggio. Vale a dire che se "Jamm' mÔ" É un'espressione ricollegabile al mondo del lavoro, essa puÔ essere usata anche per esprimere la carica gioiosa e trionfante per il compimento di una fatica fertile, produttrice di risultati positivi. Gridata in questo senso, durante la rivolta popolare, era un grido di vittoria, corrispondente all'"hurrah" internazionale. Che sia anche questo, lo testimonia il fatto che oggi a Sulmona, quando si dice "Jamm' mÔ", gli occhi di chi É stato protagonista della vicenda si accendono, i volti si atteggiano a sorriso e, con la massima soddisfazione, dalle labbra scaturisce, irrefrenabile, un "c'ero anch'io". E di qui al ricordare una sequela interminabile di piccole vittorie negli scontri, isolati o di massa, con le forze dell'ordine, il passo É breve, anzi spesso inesistente.

Di quegli episodi se ne riporta alcuni, oltre queli giÁ inseriti nella ricostruzione delle due giornate, solo per sottolineare, se ce ne fosse ancora bisogno, il clima di epopea nel quale vengono collocati i ricordi della rivolta.

Dalle interviste raccolte risulta come dato unificante della vicenda che i rivoltosi, nel resistere alle forze dell'ordine, si divertirono anche a sbeffeggiarle. In questo senso va infatti una tattica di scontro che utilizzava il cosiddetto "contraggiro" (da notare l'assonanza di questo termine con il classico "raggiro"). In pratica accadeva questo: le pattuglie delle forze dell'ordine venivano "adescate" da un gruppo di rivoltosi nei vicoli del centro storico; raggiunto il labirinto degli ambienti urbani piÝ vecchi di Sulmona, il gruppo dei rivoltosi, utilizzando i doppi ingressi dei palazzi gentilizi, scompariva alla vista dei celerini e dei carabinieri per riapparire alle loro spalle. Gli ingressi su due strade consentivano, "contraggirando" un intero isolato, di cogliere alle spalle i malcapitati tutori dell'ordine che venivano cosÍ sonoramente malmenati.

Aveva un sapore di beffa anche il rilancio dei candelotti lacrimogeni. Le forze dell'ordine ne fecero un uso non certo improntato al risparmio, ma i lacrimogeni venivano regolarmente rispediti al mittente che rimaneva spesso sconcertato e "piangente".

Un altro episodio ricordato con allegria É quello relativo alla punizione inflitta ad un ufficiale della celere che con un'autoblindo si produceva in arroganti "caroselli" in piazza XX Settembre nel pomeriggio del 3 febbraio. Si dice, ma (non É stato possibile verificare l'attendibilitÁ della notizia, che l'ufficiale fosse fidanzato con la figlia di un notabile sulmonese, molto in vista all'epoca, e questo fatto costituiva una ragione di maggiore zelo nel compimento del dovere da parte dell'ufficiale. Dall'alto della torretta del suo mezzo, questi ordinava con arroganza alla folla di disperdersi immediatamente. Un mattone in cotto, perÔ, lo colpÍ in pieno viso interrompendo a mezzo una delle sue invettive alla folla.

Un gruppo di rivoltosi poi assalÍ l'autoblindo, gettÔ a terra l'ufficiale e ribaltÔ l'automezzo...

La beffa venne ricercata non solo in momenti di lotta di massa, ma anche in scontri individuali. Proverbiale É rimasta quella del poliziotto dall'occhio nero. Nel salone di un barbiere sulmonese, nei giorni successivi alla rivolta, entrÔ, per farsi radere, un poliziotto recante su un occhio una vistosa medicazione che nascondeva a malapena un ematoma, molto piÝ vistoso della medicazione stessa. La curiositÁ dei "barbitonsori" É universalmente nota ed il figaro sulmonese, pur con tutte le cautele del caso, non seppe trattenersi dal chiedere la ragione di quell'occhio nero. "Meriterei d'aver nero anche l'altro pare sia stata la risposta per come mi sono procurato questo bel ricordo. Stavo accompagnando un ragazzo in caserma, 'quando questo si É messo a gridare, guardando in alto: "attento, attento!"; io, come un cretino, ho guardato in aria e quel figlio di buona donna mi ha dato un pugno nell'occhio ed É fuggito". Di aneddoti di questo genere se ne raccontano a centinaia, ma a parte la loro attendibilitÁ, quelli citati sono sufficienti per chiarire coma la rivolta popolare di Sulmona abbia avuto, anche nei suoi momenti piÝ drammatici, quel carattere beffardo e vittorioso che l'espressione "Jamm' mÔ" nella lingua parlata spesso esprime. Bisogna perÔ ricordare che quando i reparti Celere di Roma e di Senigallia e i carabinieri, stanchi di essere tenuti in scacco dalla folla, adottarono mezzi repressivi piÝ duri, e ci scappÔ il ferito grave, il grido che echeggiÔ per le strade di Sulmona, non fu quello di "Jamm' mÔ", bensÍ un altro, che annunciava la presenza in cittÁ di 800 doppiette. Di fronte all'uso delle armi da fuoco i sulmonesi in rivolta si ritrassero, minacciando perÔ di rispondere al fuoco con il fuoco.

I fatti di "Jamm' mÔ", in ogni caso, come una vera epopea che si rispetti, ebbero i loro cantori. FiorÍ infatti in quel periodo una schiera di verseggiatori, anonimi ed illustri, che sentirono il gusto di celebrare le gesta dei sulmonesi in rivolta. Di Ottaviano Giannangeli sono le due composizioni che seguono:

NUNC EST EUNDUM (ovverosia Jamm' mÔ)

Dal torvo Morrone la fresca mattina

invade la valle. Sulmona supina
appare tra il verde. Nel cielo, piÝ bella
sorridi Maiella.

I bimbi alla scuola van seri, pensosi.

Son forse presaghi di tristi marosi?

Ovidio tentenna la testa: "Per Bacco,

di noia mi fiacco".

Peligni, Peligni, terrore di Roma

chi dunque vi ha posto il giogo, la soma?

Son morti nel cuore gli evviva, i peani

dei tempi lontani?

Corfinio, É sepolto per sempre l'orgoglio?

la guerra continua... lo ha detto Badoglio.

I socii ove sono?.. te li mostrerÔ:

VajjÝ, Jamme mÔ!.

LÁ verso il Quadrivio la gente s'appressa,

si accresce come onda, sobbalza, fa ressa

intorno ad un'auto che avanza, che gira,

che attonita mira.

Sulmona si scuote. Un vento trasvola

di fremiti e d'ire. Davanti a una scuola

si nutre, conflagra la prima scintilla

accesa alla Villa.

- Studente, docente, sÝ, dacci una mano!

E tu non mancare, borghese, artigiano,

a questa crociata, a questa rivolta!

non siamo alla svolta?

Il ballo comincia. Un canto di guerra

si leva rombando tra il cielo e la terra.

Il grildo É raccolto. Ognuno ascoltÔ.

VajjÝ, JAMME Mô!

Arrivano gippe, gipponi, soldati,

reparti leggeri, reparti blindati,

galoppa la Celere dai monti, dal mare.

Ragazzi, che fare?

Gli arnesi di guerra?! guardate lÁ sotto...

si prendano i selci del vecchio acquedotto;

togliete gli infissi, le porte e finestre

per armi e balestre!

Coraggio, al nemico sbarrate 'la strada!

Vi chiama a raccolta la vostra contrada!

Quegli alberi a terra! Spandetelo a fiume,

l'ardente bitume.

SÝ, forza ragazzi! Ebbene, la storia

non v'ha raccontato di Quel di Portoria,

di quel che il piccolo sasso lanciÔ?

VajjÝ, JAMME Mô!

O care giornate del nostro riscatto:

lanciaste ai soprusi il grido di sfratto!

Oh vecchia campana peligna risuona!

Avanti Sulmona!

Risuona tra i monti Sirente e Maiella:

che Italia l'ascolti, la lieta novella!

Risuona tra i monti Morrone e Genzana,

peligna campana!

Oh santo vessillo che un giovane al vento

faceva garrire, raccogli il concento:

dei tanti drappelli fa' santa una lega

e al ciel ti spiega!

SÝ, sÝ, Vittorito, Corfinio, Raiano,

Bugnara, Introdacqua, Pacentro, Cansano!

a Pratola e a Popoli, Sulmona volÔ

il tuo JAMME Mô!

 

 

LE DU JURNATE DE SULMONE (2-3 febbraio 1957)

Lu popule s'arrevote tutte de botte

contre lu Guverne che lu vÔ fotte.

Quist'appunte sta annutate a nu librette

co la frase "arrevuleme lu distrette".

PirciÔ m'arrevÊ nmente la battaija

e lu zulfarielle ch'appiccÍ la paija:

de matina prieste cumenzise la tresche,

come quande acchiappivene i tudesche.

Nu rione intere circundirene

le pratiche de lu distrette carechirene,

po', pe restabbilÍ l'assette,

ecchete che inviirene lu Prefette!

La stime, l'amore, che gli tributirene!

rinchiuse na iurnata lu tenirine.

A na cert'ore i brave cunsigliere

lu trasferirene ai Carabiniere.

Intante lu popule 'n fermente

piagneve senza botte, senza niente,

ardivene 'nterre sotte sotte

'na decine de robuste cannelotte.

Lu iuorne dope, senza cumplimente,

arrive de la Celere nu reggimente

ed ecch' a na cert'ore

ricumenze la mischie traditore.

Le porte, le fenestre accatastate,

i banche, i cancielle tutte schiuvate

facirene capÍ ch'ivene arrevate

de Sulmone le due iurnate.

Pe le vie, a mane, a mane

s'aprivene le caruvane;

ogni tante sott'a na cunette

s'abbluccheve na camiunette.

CuscÍ la Celere romane de lu caruselle

pe' la matosche! se l'ha viste belle:

impresse iÊ remaste chelle che so'

le parole famose: JAMME MO'!

 

Un altro verseggiatore, un sulmonese rimasto anonimo per essersi firmato con la sigla PATI, dette alle stampe, per i tipi della tipografia Labor di Sulmona, un libello intitolato "Il Bidone".

 

2 FEBBRAIO 1957

Il Distretto che han levato

un gran chiasso ha suscitato

e il fermento É aumentato

per il tiro a noi giocato.

Nuovi e vecchi tradimenti

accaldato hanno le menti

ed a questo poi il ministro

ha aggiunto un bel sinistro

quando a Roma bellamente

si É scusato vagamente.

Tutto il danno perpetrato

riferito poi in teatro,

traboccare ha fatto il vaso

per quest'ultimo sopruso.

Poi un dÍ, ecco t'arriva,

il Prefetto senza evviva.

Or comincia la sventura

del Prefetto testadura,

che beffando infin la gente

al Comun giunge ugualmente

e la folla che ha saputo

grida: "via, perch'É venuto?".

Ma la gente or ha una mira

e vieppiÝ sogghigna e adira,

e al Comune se ne andrÁ

in piÝ grande quantitÁ.

Al Prefetto impaurito

grida giungono all'udito.

"Come faccio a uscir di qua?;

chiede al Sindaco, "beh! che si fa?".

Il telefono squillando

allarmato ha il comando:

truppe e carri cingolati

fa arrivar ben lucidati.

Ma non bastano i soldati

nÊ poi l'Arma e i poliziotti

e a frenare tanta gente

non son buon gli sfollagente.

E persino a profusione

lacrimogeni in funzione.

Qui la ciurma anche piangendo

non ripiega e sta godendo

nel tirar sassi alla forza

che si ripiega e si rinforza.

E non bastano le salve

ch'escon fuor dalle mitraglie,

qui s'aggiungon le campane

e le note sembran strane

alla gente che a quell'ora

crede sia la Candelora.

Ma alla forza quei rintocchi

fan piegar pure i ginocchi

e guardandosi negli occhi

dicon: "beh! che semo allocchi?"

...Nel Comune il poveraccio

divenuto É uno straccio,

da dieci ore o press'a poco

É assediato e non É poco.

Per tener la pelle addosso

egli esclama "Che far posso?".

Ma intanto al poveretto

par che il cuor esca dal petto,

per portarlo su di tono

somministran cardiocromo.

Poi a sera, in carro armato,

se la svigna macerato

ed a casa alfin tornato

con il naso un po' filato

ringraziando il buon GesÝ

prega e giura: "Non lo faccio piÝ".

 

3 FEBBRAIO 1957

Il bollor pare sedato

ed il sol splende indorato,

mentre, in piazza, di consueto,

or la gente di ogni ceto

si raggruppa e fa commenti

sui misfatti precedenti.

Ma con grande meraviglia

nota, invece, e se ne acciglia

quella celere temuta

e di notte trattenuta

con falÔ pece e bitume,

da ragazzi cui il barlume

per tardar, ha suggerito, q

uell'arrivo inaudito.

Ma per fare esibizioni

come il circo coi leoni

il tenente ch'É un romano

sollevata ha una mano

e cosÍ per fare i belli

fanno pure i caroselli.

Fendon l'aria i manganelli

per colpire donne e monelli

e la folla scompigliata

nei porton si É riparata.

Il tenente ormai sicuro,

che un colpo ha inferto duro,

fa cessar quel carosello

e il piacer lo fa piÝ bello.

Ecco ancora i dimostranti

col cartello andare avanti

dove han scritto, nero e grande,

un invito al comandante:

"a lasciar questo paese

arcistufo delle offese".

Il tenente alla romana

li ammonisce e li richiama:

"state bboni" e in quel momento

un matton riceve al mento.

Qui una tipica espressione

"alla carech" - JAMM' MO"

strana suona e si capisce

alla forza che smarrisce.

Pure Ovidio ognor pensoso

par sorrida ed É gioioso

e incurante strizza l'occhio

a un impavido marmocchio

che additando verso i tetti

rivoltar fa quegl'inetti,

poi burlandoli oiboh!

loro grida: "picchialÔ! ".

Or per far salva la pelle

piÝ non van per le melle,

giÁ fregati coi portoni

sono stati quei fresconi;

quei portoni a doppio accesso

ch'evitar poi ha permesso

ai ragazzi furbi e lesti

di finir contusi e pesti.

Ricordar io devo infine

quelle provvide sentine

c'han permesso ai dimostranti

d'impedire d'andare avanti

alla Celere infuriata

proprio lÍ all'Annunziata.

E persin nell'Ospedale

dove audaci, a gran pedale,

implorando per pietÁ

sono usciti per di lÁ.

Qui la celere ignorando

per corsie girovagando

ritrovata infin la porta

ha subÍto, a farla corta,

ciÔ che sotto i gioghi infami

han provato un dÍ i Romani.

Or rimar non posso troppo

che ogni tanto esce un intoppo;

per finir questa canzone

or dirÔ di quel bidone

che a qualcuno É parso strano:

far girar con qualche mano

si potesse il cilindrone

grosso quanto un cisternone.

il rumor sinistro e strano

aumentando a mano a mano

mette in fuga i celerini

bianchi ormai come cerini.

Una ridda fiammeggiante

poi sprigiona il carburante

sparso e acceso sopra il fusto

accentuandone il trambusto.

Or la notte É giÁ discesa

su Sulmona ben difesa;

per la strade É buio pesto

e sapor han di funesto.

E la Celere sfinita

in caserma É riparata;

ma sfiniti, e pare a josa,

vanno a casa i rivoltosi.

Poi la forza per rifarsi

ha pensato d'appostarsi

nei crocicchi e per il corso

dove agguantano pel dorso

tutti quel che passan lÁ

per sfogar la curiositÁ.

Tutto ciÔ fin qui narrato

spero ben d'aver rimato;

nel timor d'aver errato

chiedo d'esser scusato

per aver di questi eventi

spifferato ai quattro venti.

 

Non solo gli improvvisati verseggiatori locali si interessarono ai fatti di "Jamm' mÔ": anche a livello nazionale si trovÔ chi ebbe da ridire sui fatti di Sulmona in versi e strofette. Mario Amendola, sceneggiatore di testi per riviste, avanspettacolo e programmi radiofonici produsse il seguente gioiello:

 

PRIMO: E lasciando Venezia dove vogliamo andare?

SECONDO: Ma É ovvio a Sulmona!... é la localitÁ di moda (Cantano sull'aria di "'Ramona") Sulmona / che ti succede per favore?/Sulmona/ma perchÊ mai tanto furor?

SECONDO (canta su l'aria de "La sirena del laghetto"): Voglion toglierle il Distretto/come fu come non fu, /e Sulmona questo/proprio non lo vuole mandar giÝ. /Ma lasciatele il Distretto/grande industria in veritÁ / (per i grandi capitali che ci spendono i soldÁ) /. (Viene avanti un rigido funzionario del Ministero della Guerra che canta sul motivo "Ma l'amore no")

FUNZIONARIO: Ma il distretto no/lasciarlo non si puÔ/ormai cosÍ ha deciso il Ministero.

I TRE TIPI (si inginocchiano davanti al funzionario congiungono le mani e cantano sull'aria di "Munasterio e Santa Chiara"): Ministero della Guerra/cambia quest'idea bizzarra/Non le togliere il Distretto,/usa almeno un po' di tatto/non la fare disperar.

FUNZIONARIO (batte il piede per terra facendo scaturire una vampata di zolfo infuocato dal terreno, poi continua, cantando sempre sul motivo di "Ma l'amore no"): Ma il Distretto no/il Distretto non si puÔ/Ormai cosÍ ha deciso il Ministero/e a Sulmona che vuol dimostrar si suonerÁ... (Tutti e quattro si prendono per mano e fanno il girotondo cantando sul motivo del "Valzer di pover gente"): Il valzer dello sfollagente/che sfascia le teste/cosÍ come niente./Mentre lei dice: il Distretto occorre,/ecco la Celere accorre!/Lei prima t'abbotta la testa/poi senza pensarci t'acchiappa e t'arresta/poi dirÁ "Ha ragione ci scommetto, dobbiamo ridarle il Distretto!". (La rivista finisce; a conclusione, quattro belle ragazze abruzzesi, in costume caratteristico ci cantano il coretto di chiusura).

CORO DI CHIUSURA: Qui finisce la rivista/che con animo innocente/prende in giro certa gente/che di sÉ parlare fa.

 

Le operette "immortali" rintracciate e qui riportate, nonostante siano il frutto di spiriti provinciali o tutt'al piÝ goliardici, testimoniano ancora una volta come la rivolta di Sulmona abbia avuto tutte le caratteristiche racchiuse nella espressione dialettale "Jamm' mÔ"; ma ne esiste un'ultima anonima, che per le sue caratteristiche, linguistiche, letterarie e per la struttura complessiva sembra scaturisce direttamente dalla cultura popolare, senza alcuna intermediazione; la diamo qui di seguito:

 

LE TRE IURNATE DE SULMONE

Stu Guverne, dorma dorme,

passe uogge pe' demane,

sole nghe le bomb'ammane

lu putemme resbiÁ!

Pe' piarce mo' pe fesse,

ce facirene la promesse

c'a Sulmone lu Destrette

nun l'avriene cchiÝ levate.

Ma se l'hanne po' purtate,

ste fetiente sbrevugnate!

A sta bella futteture

che ce porte tante danne,

la pacienza da tant'anne

s'É perdute adderetture!.

E de sere e de matine

senza tante meravije

s'hanne viste i sulmuntine

pe' tre juorne senza brije!

T'hanne fatte la battajje

nghe la stupefa sberraje

ca la cucce ha aula fÁ

dentre e fore a sta cettÁ.

I celerine strafettente

mo se l'hanna recurdÁ

chesta bella lezzione

recevute da Sulmone.

La miserie 'de la vite

mo' l'avessa fa pentÍ,

stu guverne tante cane

c'a lu puoste de le pane

te fa da' manganellate

a lu povere affamate!.

 

La trascrizione dialettale di questa composizione si avvicina molto alla lingua parlata, cosÍ come risultano tipicamente popolari sia le invettive che le espressioni figurate. Anche il verso, l'ottonario, É quello piÝ comunemente usato nelle composizioni popolari. In ogni caso, tutte le composizioni concorrono alla celebrazione delle gesta del popolo sulmonese in rivolta. Si trattÔ di una vera epopea, con tanto di epica, scritta e orale.

jamm07.jpg (72476 byte)

LA LOTTA PER NASCERE

La Democrazia Cristiana di Sulmona conosceva bene le condizioni della societÁ civile della zona: disoccupazione, emigrazione, agricoltura povera, livelli di reddito tra i piÝ bassi del Mezzogiorno. Le prospettive, inoltre, erano incerte. Il Governo aveva adottato una politica economica che di fatto penalizzava il Sud, puntando sulla crescita produttiva del Nord cui era stato demandato il compito di rappresentare l'Italia nella competizione economica con gli altri stati europei. Alle popolazioni del Meridione a prescindere dall'emigrazione, non veniva offerta altra prospettiva oltre quella di poter lavorare nei cantieri edili per la realizzazione delle opere pubbliche finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno, o l'altra di poter ottenere il classico "posto statale" o, in alternativa, il posto nelle industrie del Nord. Il tutto perÔ attraverso il filtro delle raccomandazioni paternalistiche e clientelari del parroco del paese o dell'avvocato o del medico democristiano. La ricostruzione del dopoguerra, che pure avrebbe potuto svolgere un'azione trainante per l'economia del paese, alla fine risultÔ, come É stato giÁ rilevato, piÝ che una manovra di politica economica, un intervento unitario che andava dotando il paese di scuole, ospedali, strade, acquedotti, ponti e reti fognanti, strappandolo cosÍ ad un degrado proprio dei paesi del terzo mondo.

La Democrazia Cristiana, aspirante borghesia di stato nella Valle Peligna, alla ricerca di un ruolo che non fosse quello della dipendenza dal piÝ potente gruppo aquilano del proprio partito, risolse di armare la protesta popolare e di gestirla contro i vertici politici che nella gestione dell'intervento finanziario della Cassa per il Mezzogiorno l'avevano esclusa.

Questo meccanismo di pressione nei confronti dei potentati maggiori del proprio partito messo a punto dalla Democrazia Cristiana in occasione della crisi di "Jamm' mÔ", venne ripescato in altri momenti critici per la storia della politica economica della Valle Peligna, quali ad esempio quello coincidente con le decisioni relative al tracciato per l'autostrada Roma Pescara, l'altro per l'insediamento dell'impianto industriale FIAT nel territorio sulmonese ed infine quello per il casello autostradale di uscita della A 25. Sempre lo stesso meccanismo É utilizzato anche in occasione della scelta dei capoluoghi regionali in Abruzzo ed in Calabria, agli inizi degli anni '70, con le rivolte di L'Aquila e Reggio Calabria.

In tutte le situazioni appena ricordate, É dato riscontrare come si É riprodotto lo schema classico della crisi sulmonese: mancanza di una leadership all'interno del partito di maggioranza relativa che tenesse sotto controllo tutto il territorio regionale; esistenza di piÝ gruppi di potere in lotta tra loro per la conquista di una supremazia; assenza di una efficace risposta delle forze della sinistra agli scontri interni al partito di maggioranza relativa (le forze della sinistra, partiti e sindacati, nelle occasioni citate hanno mostrato sino in fondo la propria incapacitÁ di risolvere a proprio favore le contraddizioni interne al sistema di potere, non tanto nella loro opera di attacco e denuncia di queste contraddizioni, quanto nella loro sostanziale mancanza di idee relativa ad una politica economica alternativa a quella della Democrazia Cristiana); ed infine uno stato di malcontento diffuso nella popolazione per il tenore di vita esistente e per la mancanza assoluta di prospettive in relazione alla crescita civile ed economica della societÁ.

Un altro dato caratterizzante lo schema strutturale delle vicende di "Jamm' mÔ", ed anche di molti degli altri fatti citati, lo si riscontra nel fatto che l'uso della protesta popolare a fini propri da parte della Democrazia Cristiana ha trovato un momento nel quale l'architettura del disegno É saltata: lo strumento É andato via per proprio conto, sopravanzando le intenzioni di chi lo stava usando; in fin dei conti si trattava di uno strumento pensante. Il dato in questione É quello proprio della collera popolare nel momento in cui diviene padrona di se stessa e spazza via le intenzioni di chi va a stuzzicarla.

Le giornate del 2 e 3 febbraio del '57 furono, quindi, un fatto interamente popolare e non una rivolta pilotata dai borghesi. Il tentativo di linciaggio del Prefetto, la bastonatura del vice questore aquilano, le barricate, gli scontri con le forze dell'ordine non furono certamente guidate da coloro che per tre anni avevano chiamato alla mobilitazione la cittÁ con scioperi generali e con le delegazioni al palazzo romano e che di fronte alla sconfitta si erano dimessi da tutte le cariche pubbliche. Ma se non fu pilotata dai borghesi, la rivolta di Sulmona non venne nemmeno guidata dalle sinistre; semplicemente non fu un fatto politico cosciente, un fatto politico in senso stretto. La sinistra sulmonese, sebbene generosa e molto attiva nell'attaccare la Democrazia Cristiana sia dal punto di vista politico che amministrativo, non era capace di contrastarne il disegno di conquista delle leve di comando della politica economica del territorio, perchÊ non conosceva da un punto di vista operativo il disegno della Democrazia Cristiana, nÊ ne possedeva uno proprio sia a livello teorico che a livello pratico di gestione di una qualsiasi politica economica.

Solo con il passare del tempo, prima nel Partito Comunista, ed in seguito nel Partito Socialista, emersero la coscienza e la conoscenza pratica di quanto la Democrazia Cristiana andava facendo per costituire e consolidare una vera e propria area di potere mediante i flussi finanziari dei capitali di Stato manovrati dalla politica economica del Governo.

Tale coscienza venne resa esplicita dal Partito Comunista di Sulmona in occasione di un altro periodo di forte tensione politica cittadina causata da vicende di politica economica: l'insediamento dello stabilimento FIAT nel territorio del Consorzio per il Nucleo Industriale di Sulmona. Fu quello un periodo caratterizzato da scioperi generali, cortei e, per la prima volta nella storia di Sulmona, dall'occupazione di Palazzo San Francesco, sede del Municipio. Venne ricreato il clima degli anni '54-'55-'56: quello della mobilitazione generale in difesa del Distretto. Si registrÔ perÔ una deviazione rilevante dallo schema di azione messo in atto in quegli anni: i partiti politici non erano unanimi nel richiedere l'insediamento FIAT. I comunisti in consiglio comunale, pure in presenza di una grave frattura interna che avrebbe determinato l'uscita del partito di uno dei suoi membri piÝ autorevoli, il professor Claudio Di Girolamo, votarono contro l'insediamento, denunciando il disegno della Democrazia Cristiana. Le motivazioni addotte per quel no, infatti, furono oltre quelle di natura politico-economica (che indicavano nel legame con le risorse disponibili nella zona il fondamento di un solido decollo economico della stessa), anche le altre relative all'accrescimento della dipendenza della societÁ civile peligna dal gruppo di potere democristiano che nel frattempo si era andato concretando nel controllo diretto dell'ente locale e di tutte le sue articolazioni, del Consorzio per il Nucleo di Sviluppo Industriale e del credito locale.

Il Partito Socialista sulmonese, dal suo canto, verificÔ l'esistenza del complessivo disegno della Democrazia Cristiana frequentandola nei governi amministrativi cittadini del centro sinistra che durarono fino al 75. Terminato il quinquennio amministrativo in un clima di forte polemica tra i partiti, ed in presenza di un'ulteriore profonda lacerazione all'interno della Democrazia Cristiana, il partito Socialista, insieme al partito Comunista, prese l'amministrazione ed in collegamento alle tematiche della linea politica nazionale cercÔ di sostituirsi alla Democrazia Cristiana, arricchendo perÔ l'azione politico-amministrativa dei caratteri dell'imprenditorialitÁ e dell'efficienza, e collegandosi ai cosiddetti ceti impreditoriali emergenti della industria e dell'edilizia, contro il parassitismo e la gestione burocratica ed improduttiva della cosa pubblica.

Tuttavia la carenza di fondo della politica delle sinistre in alternativa a quella della Democrazia Cristiana É riscontrabile sia oggi, sia, e a maggior ragione, durante le crisi di "Jamm' mÔ" e nelle successive, É necessario ribadirlo nella incapacitÁ di proporre un governo del territorio e della sua economia che, senza fermarsi alle sole enunci azioni politiche generali, scenda nella prassi a misurarsi con i problemi e le esigenze della societÁ civile; di tutta la societÁ civile e non di qualche suo settore soltanto.

In questa situazione la Democrazia Cristiana ha sempre avuto buon gioco. In mancanza di termini di raffronto diretti, il partito di maggioranza relativa a Sulmona ha sempre potuto proporre il proprio disegno di gestione della societÁ civile come il risultato dell'impegno dei suoi uomini verso una crescita economica e sociale della zona. Se, quindi, la Democrazia Cristiana protesta per la sottrazione notturna del distretto, lo fa solo ed esclusivamente per la dignitÁ offesa della cittÁ e della zona; se la OC riesce ad ottenere il consorzio per il nucleo industriale e ne mena vanto, ciÔ accade perchÊ i suoi uomini sono convinti e si mobilitano in vista della necessitÁ di procurare un lavoro agli uomini e alle donne di Sulmona e della Valle Peligna; se si proclama l'agitazione della cittÁ sulla questione dell'Autostrada, É perchÊ "la dorsale appenninica, in fatto di rete viaria e di sistema di comunicazioni, intersecherÁ la direttiva adriatica" favorendo lo sviluppo dei rapporti commerciali e del turismo del comprensorio sulmonese e dell'Altopiano del Sangro.

Si potrebbe continuare "ironizzando" ulteriormente su molti aspetti dello sviluppo economico e sociale di Sulmona e della sua regione, cosÍ come voluto dal partito di maggioranza relativa. Ma, per chiudere su questo argomento e guardando allo sviluppo cosÍ come É andato articolandosi in questi ultimi venti anni in tutta la regione, non si puÔ non rilevare come abbia avuto un andamento schizoide, dovuto, in concomitanza con altre cause, ad una forza centrifuga operante negli interventi dello Stato per effetto della divisione della Pubblica Amministrazione in due o piÝ centri di potere: l'autostrada A 24, poi ramificatasi nella A 25, le facoltÁ universitarie distribuite a manciate tra i capoluoghi di provincia, il capoluogo regionale insediato a L'Aquila, ma con molte dependances a Pescara, sono gli esempi piÝ eloquenti di quanto appena affermato.

E alla luce dell'analisi appena compiuta, si comprende come il gruppo democristiano sulmonese non avesse avuto, in occasione della manovra realizzata con la crisi di "Jamm' mÔ", la benchÊ minima possibilitÁ di strappare una fetta di potere agli agguerriti ed affamati clan di borghesi di stato che andavano formandosi a L 'Aquila e a Pescara. E di fatto vennero sonoramente battuti. Era il 30 gennaio del 1957. Ma dovevano ancora venire le giornate del 2 e 3 febbraio.

 

jamm09.jpg (63090 byte)

KNOW HOW

Da quanto detto finora, si intende come tutte le vicende connesse alla storia della rivolta popolare di Sulmona rappresentino insieme un punto nodale della vita politica, amministrativa, economica e sociale del capoluogo Peligno e del suo comprensorio. Questa storia, perÔ, pur riguardando tutta la societÁ peligna, appartiene anche e soprattutto alla Democrazia Cristiana. Esiste un nesso indiscutibile tra la storia di questo partito e quella dello sviluppo del territorio nel quale esso ha operato. La Democrazia Cristiana di Sulmona, da intendersi come una somma di gruppi o di clan politici cooperanti sulla base di una identitÁ di interessi non solo ideologici, É stata l'artefice principale, se non esclusiva, dell'attuale assetto della realtÁ sociale nella Valle Peligna e a Sulmona. L'interazione tra le forze politiche e sociali che storicamente si contrappongono alla, Democrazia Cristiana e questa stessa hanno prodotto effetti che certo hanno influito sul suo disegno politico complessivo. Ma questo aspetto particolare dell'indagine che si va compiendo puÔ e deve costituire l'oggetto di un altro e piÝ approfondito studio da effettuare in altra sede. In questa É opportuno ricostruire come e quando la Democrazia Cristiana si É appropriata degli strumenti che le hanno consentito di dare una propria impronta alla societÁ sulmonese incanalandone lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un'altra. E il nodo cruciale di questa indagine va indicato nelle giornate del 2 e 3 febbraio del 1957.

Si É giÁ avuto occasione di dire come l'intreccio politico, e politico-economico, sotteso alla vicenda complessiva di "Jamm' mÔ" ha visto come maggiore protagonista la Democrazia Cristiana ed i suoi uomini, dal vertice alla periferia, nella sua qualitÁ di struttura politica in grado di ideare e gestire un intervento complessivo nel governo del territorio. Il presupposto essenziale di questa capacitÁ del partito di maggioranza relativa, sia in sede nazionale che locale, risiede essenzialmente nei consensi elettorali raccolti nell'aprile del '48. A Sulmona, giÁ dall'aprile del '46, data delle prime elezioni amministrative del dopoguerra, la Democrazia Cristiana raccolse 5.308 voti su 10.954 votanti pari al 48.5% dei voti. La sinistra unita raccolse invece 3.812 voti, in percentuale il 34.8%. Questi risultati, senza andare troppo a fondo nell'analisi, si puÔ dire trovino la loro giustificazione nel fatto che l'apparato amministrativo fascista, o quanto rimaneva di esso nell'ultimo periodo bellico e che dovÊ occuparsi di mandare avanti l'azienda "cittÁ di Sulmona", venne sostanzialmente travasato nel nuovo ordine amministrativo repubblicano, completo di armi e bagagli clientelari.

Il risultato elettorale del '46 si ripetÊ nel '51, al rinnovo dell'amministrazione comunale. Di nuovo la Democrazia Cristiana, pur perdendo un punto o due in percentuale, conferma il proprio primato: 5.300 voti, il 46.12%, e 18 seggi in consiglio, la maggioranza assoluta. Il PCI ed il PSI, presentatisi divisi, ottengono rispettivamente 1.597 voti (13.95%) e 3 seggi il primo, e 1.816 voti (15.8%) e 3 seggi il secondo. Si affaccia sulla scena politico-amministrativa la lista civica "Campanile e Cupola" che con 211 voti 1.8 %) ottiene 1 seggio. Sono questi i dati dai quali partire per valutare il sommovimento elettorale seguito alla fine della seconda tornata amministrativa del dopoguerra. Il momento elettorale, 27 maggio del '56, cade nel pieno della crisi del Distretto Militare. Tra questi due fatti esiste un nesso, un collegamento rappresentato dalla volontÁ del gruppo dirigente della Democrazia Cristiana di Sulmona di entrare a far parte, per il territorio di propria competenza, della gestione di quella manovra di politica economica, alla quale risultavano legati oltre che l'emancipazione da una condizione di sottosviluppo dell'intera zona, anche la costituzione di una struttura di potere direttamente controllata dalla Democrazia Cristiana stessa.

Tale politica, tuttavia, per poter essere compiutamente realizzata, soprattutto nelle sedi periferiche del paese, comportava di necessitÁ la presenza in queste di un punto di riferimento, solido, compatto ed unito. Era cioÉ necessario che in un determinato ambito territoriale esistesse una ed una sola leadership capace di contenere l'azione degli avversari politici e dotata di un'autoritÁ riconosciuta anche all'interno delle varie correnti democristiane. Non era questo il caso della regione Abruzzo. Qui la Democrazia Cristiana, pur vantando un primato di tutto rispetto nei confronti dei partiti avversari, non aveva al suo interno una leadership riconosciuta, ma solo gruppi che lottavano per acquisire una supremazia politica sugli altri. é noto il ruolo svolto in questo senso dai gruppi aquilani e pescaresi. I democristiani di Sulmona, non essendo in grado di coagularsi attorno ad un cavallo di razza che potesse rappresentarli all'interno del Palazzo romano, si divisero tra le correnti maggioritarie nella regione, mantenendo tuttavia una generalizzata sensibilitÁ municipalistica che li portava a nutrire una buona dose di rancore nei confronti dei boss regionali.

Non É stato possibile ricostruire una mappa dettagliata e fedele della suddivisione in correnti della Democrazia Cristiana di Sulmona in occasione della crisi di "Jamm' mÔ".

é certo, comunque, che in quelle circostanze tra i democristiani sulmonesi prevalse quel raggruppamento che si opponeva all'invadenza degli "amici" aquilani i quali, tesi a divenire borghesi di stato per proprio conto, non esitavano certo a sacrificare gli interessi del territorio provinciale a tutto vantaggio di quelli del capoluogo. L'unica arma a disposizione dei democristiani di Sulmona, per arginare e capovolgere questa situazione, venne individuata nella protesta popolare. Il declassamento del Distretto Militare fu, dunque, il "casus belli" di una strategia ben piÝ vasta; fu, cioÉ, il segnale mediante il quale fu fatto intendere ai boss provinciali e nazionali della Democrazia Cristiana che il gruppo dei notabili sulmonesi non avrebbe assistito passivo ed impassibile ad una distribuzione di denaro pubblico nella regione che avesse registrato l'esclusione della Valle Peligna. Era perÔ necessario montare il caso senza farlo apparire per quello che in realtÁ era: uno scontro interno tra le diverse istanze territoriali del partito della Domocrazia Cristiana. E a togliere la castagna dal fuoco ci pensÔ il Comitato di Difesa Cittadina.

Non É stato possibile stabilire con certezza quali siano stati i padrini che hanno tenuto a battesimo questa associazione di salute pubblica. Tuttavia quale suo primo presidente venne eletto il generale Ruggieri. Siamo nell'agosto del '54; il generale a riposo diverrÁ sindaco nelle elezioni comunali del '57. é, questo fatto, da considerarsi l'alfa e l'omega politico di "Jamm' mÔ", il principio e, piÝ che la fine, il fine dell'intera vicenda. Ma, procedendo con ordine, É da rilevare come, dopo aver incanalato il processo sui binari voluti la Democrazia Cristiana si sia ritratta nel mucchio degli altri partiti politici per confondersi con essi e scrollarsi di dosso l'immagine di primo motore del caso. Subito dopo la crisi dell'agosto del '54 il generale Ruggieri passa le consegne al dottor Giorgio De Monte, allora militante del PSLI, Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Questi, dopo un breve interregno, le cederÁ a sua volta al colonnello Sardi iDe Letto, lo stratega dei tre tempi della prima fase di "Jarnrn' mÔ".

L'azione É dunque predisposta e puÔ avere il suo svolgimento. Non É perÔ uno svolgimento lineare: in tutta la vicenda c'É qualcosa che sfugge ai piÝ; ci si rende conto che esiste un aspetto della situazione noto solo ad alcuni addetti ai lavori. Si ha l'impressione di assistere ad una surreale partita a scacchi: le mosse della scacchiera dovrebbero essere riportate su un tabellone per consentire ad un pubblico piÝ vasto di seguire la partita. Ma accade che sul tabellone vengano riportate le mosse di un solo giocatore, mentre le pedine dell'altro rimangono immobili nella geometria del loro schieramento iniziale. Eppure le pedine cadono da ambedue le parti, segno di una partita giocata senza esclusioni di colpi. Si verificano, infatti, dimissioni a catena all'interno della Democrazia Cristiana: la figura piÝ illustre che lascia quel partito É quella dell'avvocato Giovanni Autiero, vicesegretario provinciale del partito ed ex podestÁ di Sulmona nel periodo tremendo dell'interregno tra la fine della guerra e la liberazione di 5ulmona da parte dell'esercito alleato. Tuttavia la DC, entro la fine dell'anno, riesce a comporre le fila scompaginate e propone alla cittadinanza sulmonese un manifesto nel quale assicura solennemente che il Distretto Militare di Sulmona non verrÁ sottratto alla cittÁ. Questa presa di posizione lascia perplessi gli altri partiti; la DC ha il potere di far rimanere il Distretto a Sulmona? se sÍ, dica come. Le dimissioni a catena ed il manifesto sono testimonianze esplicite di profondi contrasti determinati da quanto accade per il Distretto e dalla contrapposizione dei gruppi sulmonese ed aquilano. Tutto, perÔ, rimane nella "camera caritatis" delle segreterie democristiane. Negli anni '55 e '56 il pericolo del trasferimento del Distretto si ripresenta, ma piÝ che gli scioperi e le delegazioni a Roma valse a scongiurarlo il fatto che si stavano avvicinando le elezioni amministrative. P. sintomatico che il Ministro della Guerra, come veniva allora chiamato, su esplicita richiesta rivolta dal sindaco di Sulmona al segretario nazionale della Democrazia Cristiana, Fanfani, e all'onorevole Natali, non renda esecutivo il provvedimento di trasferimento delle pratiche giacenti al Distretto di Sulmona, ormai declassato, a quello di L 'Aquila. Il 27 e 28 maggio del '56 il Distretto Militare era ancora in cittÁ.

A questa data si conclude il secondo periodo amministrativo del dopoguerra e si vota per il terzo. La Democrazia Cristiana, in quanto tale, ne esce letteralmente dimezzata: dal 46.12% passa al 28.1 %; su 18 consiglieri ne perde 9 e da 5.300 voti ne raccoglie solo 3.310. é un tracollo? a prima vista, sÍ; in realtÁ si trattÔ della registrazione in termini elettorali dei dissidi interni al partito di maggioranza relativa: in quella stessa tornata elettorale vennero fuori due liste civiche dei Coltivatori Diretti, la lista della "Vanga" e la lista dei "Coltivatori Diretti Indipendenti", che ottennero complessivamente 4 seggi, 3 la prima ed 1 la seconda. Queste due liste non vennero fuori dal nulla: dal fianco della Democrazia Cristiana si staccarono dolorosamente queste due costole, a testimonianza diretta dei dissidi interni. Ma in quella tornata elettorale, a parte una sensibile avanzata delle sinistre, se ne registrÔ un'altra, quasi miracolosa: quella della lista Campanile e Cupola, di ispirazione liberale. Questa lista guadagna d'un colpo piÝ di mille voti e tre rappresentanti in Consiglio. Anche su questa formazione politica si riversarono voti di provenienza democristiana.

PiÝ che come una sconfitta elettorale, la situazione determinatasi all'indomani delle elezioni del '56 va letta come un momento della vita del partito della Democrazia Cristiana a Sulmona. La sconfitta, infatti, presuppone la presenza di un vincitore, ma l'avanzata della sinistra non deve trarre in inganno: i suffragi raccolti dal partito comunista e dal partito socialista dipendono essenzialmente dalla suggestione che i loro uomini seppero creare in qualitÁ di protagonisti sulla piazza durante le crisi del '54 e '55, come del resto accadde per il movimento sociale. E quanto accade all'interno della Democrazia Cristiana viene puntualmente riprodotto in sede amministrativa.

L'aspirazione di questo partito a farsi borghesia di stato non É un fatto pacifico e cosciente al punto da essere teorizzato a tavolino da tre o quattro teste d'uovo ed accettato senza problemi da una truppa disciplinata. Alcune correnti interne non condividevano la tendenza, che per somma algebrica poi veniva fuori, e che era quella di creare un centro di potere autonomo sul territorio, svincolato dal patrocinio del clan aquilano o pescarese. I boss regionali avevano i loro uomini nella sezione DC di Sulmona e questi ultimi, pur dovendo far buon viso a cattivo gioco sul tema specifico del Distretto Militare, dovevano certamente dare battaglia per altri versi, cercando di estendere l'influenza dei propri capicorrente nella zona. Ma, nel caso particolare, se il gruppo prevalente della DC sulmonese avesse vinto la battaglia del Distretto, ciÔ avrebbe potuto significare una cosa sola: che cioÉ il gruppo sulmonese era riuscito a trovare un proprio protettore all'interno dei meandri del Palazzo romano. Questi, inoltre, non sarebbe stato nÊ aquilano, nÊ forse pescarese, ma, con ogni probabilitÁ, un grosso calibro nazionale che, una volta lanciata una testa di ponte in Abruzzo, avrebbe potuto istallarvisi e scacciarne i boss indigeni imponendo un proprio proconsole. E ciÔ dal punto di vista dell'attribuzione della leadership regionale. Il pericolo, nell'ipotesi avanzata della vittoria del clan democristiano sulmonese sulla questione del Distretto, sul versante della gestione del potere regionale, sarebbe consistito nel fatto che il nuovo patrono dei ribelli, fatto il miracolo del Distretto, avrebbe potuto farne altri e, cosÍ, Sulmona si sarebbe sostituita ai capoluoghi di provincia nell'accaparrare i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. Tutto questo non doveva accadere. Di qui i fortissimi contrasti interni alla DC sulmonese determinatisi tra le diverse correnti e manifestatisi nella tornata elettorale del '56.

PerciÔ, se all'inizio la questione della soppressione del Distretto Militare di Sulmona rivestiva solo l'importanza che si puÔ normalmente annettere ad un atto di normale amministrazione di un Ministero, con il procedere del braccio di ferro voluto dalla DC sulmonese, per quella aquilana veniva acquisendo tutta la valenza di una necessitÁ di sottogoverno imposta dalla tutela di ben altri interessi che non quelli legati alla struttura militare.

E solo in questi termini si spiega la brutalitÁ dei modi con i quali si provvedette al trasferimento del Distretto di Sulmona a L'Aquila.

Con le elezioni del '56, nella sala consiliare di Palazzo San Francesco accade un fatto del tutto inopinato: va a sedere sulla poltrona di sindaco il marchese Panfilo Mazara, gentiluomo di estrazione liberale eletto nella lista Campanile e Cupola. Un laico a Palazzo San Francesco, nel 1956, É un fatto assolutamente rimarchevole. é vero che la Democrazia Cristiana ha perso 9 consiglieri su 18, ma una poltrona di sindaco non viene abbandonata senza colpo ferire. Questa soluzione, perÔ, si rivelerÁ molto propizia alla Democrazia Cristiana: di lÍ a qualche mese la crisi di "Jamm' mÔ" sarebbe precipitata e non É da escludere che qualcuno lo sapesse. Il sindaco liberale, quindi, marchese e gentiluomo, venne eletto perchÊ gestisse la crisi di "Jamm' mÔ" al posto di un democristiano? Che il Distretto, declassato, fosse destinato a prendere la strada che portava a L'Aquila era comunque un fatto certo; incerte risultavano solo l'epoca e le modalitÁ dell'avvenimento. In ogni caso, la presenza di un sindaco laico al momento della esecuzione dell'odioso provvedimento ministeriale sarebbe stata di gran lunga preferibile alla presenza di un sindaco democristiano. Ma se non si puÔ attribuire ad un preciso calcolo di parte democristiana il verificarsi di questo nuovo assetto amministrativo ai vertici del Comune di Sulmona, non si puÔ fare a meno di constatare come i protagonisti effettivi dello scontro, e cioÉ gli uomini della DC, l'un contro l'altro armati, appaiano, nello stesso, in ruoli secondari, almeno agli occhi dell'opinione pubblica cittadina. Infatti, se al Comune si É insediato nella poltrona di sindaco un liberale, ed alla testa del Comitato di Difesa Cittadina ancora un liberale, gli uomini della Democrazia Cristiana figurano, nella maggior parte dei casi, nella qualitÁ di mediatori ai vari livelli istituzionali. Anzi É lo stesso onorevole Natali che, insieme a Spataro, telefona poche ore prima che il Distretto venga trasferito, per dare ampie assicurazioni al marchese Mazara di non preoccuparsi affatto in quanto il provvedimento di trasferimento dell'ufficio militare non sarebbe stato, almeno per il momento, attuato. Ma nella notte tra il 27 ed il 28 gennaio avviene irreparabile.

A quel punto lo scontro tra i gruppi aquilano e sulmonese della Democrazia Cristiana si consuma con la vittoria dei boss provinciali sui locali. Secondo i dettami della "dietrologia", la brutalitÁ del trasferimento notturno non puÔ che significare una cosa sola: É il gruppo aquilano della DC che deve svolgere una funzione di leadership in provincia; i notabili sulmonesi devono prendere atto di questa situazione, ed altro potere non potranno avere se non all'ombra dei potenti aquilani e solo dopo che questi avranno consolidato la propria area di influenza. Questo deve essere considerato il finale negativo dell'azione democristiana tesa a creare a Sulmona quella struttura di governo del territorio peligno mediante l'impiego del pubblico denaro.

Ma dopo l'improvviso precipitare del dramma, inopinatamente la svolta. La calata arrogante del Prefetto a Sulmona e lo scatenarsi della collera popolare rimettono tutto in gioco. Dal 28 gennaio al 2 febbraio, la popolazione sulmonese, sebbene rabbiosa per la beffa notturna, aveva dovuto registrare lo stato di fatto ed incassare il colpo. Con lo sciopero generale e le dimissioni di tutti i consiglieri comunali, Sulmona celebra una sconfitta che É essenzialmente una sconfitta dei leaders democristiani locali.

Allora perchÊ la rivolta? É indubbio il fatto che l'episodio del Prefetto dette l'occasione al suo esplodere. Ad una beffa non si poteva aggiungere impunemente un'altra, e la rabbia esplose. Ma era una rabbia dalle radici piÝ profonde. La popolazione aveva assistito ad una serie di manovre delle quali aveva colto solo alcuni aspetti. In tre anni, sempre sul finire dell'estate, la questione del Distretto si era puntualmente riproposta ed era puntualmente rientrata. E quelli erano anni in cui i disoccupati italiani avevano ricevuto dal governo, invece che posti di lavoro, il consiglio di acquistare una valigia, imparare una lingua ed emigrare. La vicenda della soppressione del Distretto Militare, anche se in termini confusi, aveva evidenziato, al di lÁ di ogni dubbio, che il Governo aveva abbandonato a se stessi i cittadini del meridione. Non solo, ma attraverso provvedimenti iniqui e contrari all'interesse dello stesso Stato, sottraeva le misere risorse dalle zone piÝ povere per dirottarle verso altre piÝ potenti. La rivolta delle due giornate di Sulmona nacque, quindi, dalla rabbia della popolazione e non potÊ essere perciÔ "una rivolta borghese" come suggerÍ immediatamente la stampa nazionale che inviÔ a Sulmona giornalisti del calibro di Villy De Luca, Alberto Consiglio e Giancarlo Del Re. I cosiddetti borghesi, colonnelli, generali a riposo, nobili e professionisti, avevano ormai giocato tutte le loro carte, ed avendo perso, da bravi borghesi appunto, si erano bruciati romanticamente le cervella immolando la propria immagine pubblica in un rito collettivo in consiglio comunale e giungendo persino ad organizzare il proprio funerale. Cos'altro puÔ significare, infatti, la deposizione di una corona d'alloro sul monumento ai Caduti, in una evenienza del genere, se non portar fiori sulla propria tomba? L'autocommiserazione, a volte, puÔ rivestire anche quest'aspetto: considerarsi Caduti per la Patria. Tali dovevano sentirsi gli aspiranti borghesi di stato sulmonesi. La sottrazione del Distretto per loro dovÊ significare senza alcuna possibilitÁ di equivoco la impossibilitÁ di giungere a costituire a Sulmona un centro di potere politico ed economico autonomo dalla tutela dei capi aquilani.

Per questi motivi il 2 febbraio, quando scoppiÔ la rivolta, il Prefetto, rifugiandosi in Comune, si trovÔ di fronte, schierati in bell'ordine e costernati, i protagonisti "borghesi" della crisi causata dal Distretto; tutti lÍ, a battersi il petto e ad umiliarsi: il colonnello Sardi De Letto, lo stratega dei tre tempi, era lÍ ad offrire la mano al funzionario in un eccesso di amicizia e solidarietÁ, frustrato dallo sdegnoso e sprezzante rifiuto del funzionario rabbioso per le attenzioni tributategli dal popolo sulmonese in rivolta. Ma proprio mentre i cittadini di Sulmona bastonavano e sbeffeggiavano le forze dell'ordine, inopinatamente si realizzava il disegno dei borghesi di stato.

A Sulmona si ebbe la fortuna, in quel frangente, di non registrare alcun fatto di sangue, fatta eccezione per il ferimento del giovane falegname. f1 Partito Comunista impedÍ che l'azione rivoltosa degenerasse, tenendo a freno le teste piÝ calde della piazza. Ma dopo la rivolta popolare si giunse all'assurdo che quanto piÝ grave fosse stato il bilancio della stessa, tanto maggiore sarebbe risultata la vittoria degli aspiranti borghesi di stato sulmonesi. Il risultato piÝ immediato delle due giornate di Sulmona si colse infatti nella reazione della opinione pubblica nazionale e degli echi che di questa reazione si ebbero in parlamento. Durante le campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale dimessosi il 30 gennaio del '57, il Parlamento votÔ la famosa mozione Corbi-Spataro. Questa era stata tratta da un promemoria steso a sei mani da Claudio Di Girolamo, Giovanni Autiero e Vincenzo Masci, ed aveva il pregio di fare puntuale riferimento alle risorse della zona e nell'individuare un piano di aiuti finanziari per strappare la Valle feligna dalla sua endemica miseria. SenonchÊ accanto a questo pregio, quella mozione presentava un difetto che ne inficiava alla base l'intera credibilitÁ; era una mozione votata dal Parlamento sotto la spinta dell'opinione pubblica nazionale e nell'imminenza di una campagna elettorale amministrativa. Il fatto stesso che poi fosse stata quasi integralmente ripresa dal promemoria dei tre uomini politici sulmonesi dimostrava come, nonostante le migliori intenzioni, il Parlamento non avesse, nell'occasione, idee proprie su come intervenire in questa parte del Mezzogiorno. Anzi il dibattito sui fatti di Sulmona costituÍ l'occasione per il rinnovarsi di uno scontro tra i sostenitori della linea liberista in politica economica, e le sinistre che con Di Vittorio facevano diretto riferimento al Piano del Lavoro della CGIL. Risulta evidente dalla lettura della mozione che nessuna delle due linee venne adottata.

Quindi la mozione non risultÔ essere che un atto formale, di fronte al quale il Governo, nella sostanza, non si sentÍ affatto impegnato.

Nella campagna elettorale che seguÍ di lÍ a poco, infatti, si ebbero i primi segnali dell'intervento statale nell'economia della Valle Peligna. Il Ministro del Tesoro, il democristiano Campilli, nei suoi comizi elettorali si lanciÔ in una serie mirabolante di promesse. Sin dall'inizio la popolazione di Sulmona si rese conto del fatto che quelle promesse non potevano essere mantenute e le definÍ "campillate". Ma il personaggio governativo di fronte allo scetticismo ironico con il quale venivano accolte le sue parole, lanciÔ una minaccia che pressappoco suonava in questi termini: "state buoni e votate per la Democrazia Cristiana, altrimenti 'una fabbrica' non verrÁ...". E questo fu il segno della vittoria per i democristiani sulmonesi. Quando ormai sembrava tutto perso, la rivolta popolare aveva impressionato a tal punto le gerarchie democristiane che si decise di aiutare gli amici del Partito di Sulmona, non attraverso la realizzazione di quanto previsto dalla mozione, bensÍ attraverso l'uso degli incentivi per la industrializzazione per il Mezzogiorno che costituivano il momento marginale della manovra di politica economica avviata con la Cassa per il Mezzogiorno.

Nel maggio si andÔ alle elezioni con la DC avviata a ricomporre le fratture. Si risolleva, infatti, al 41.81% e riconquista 13 seggi. La maggioranza assoluta per il momento É persa, ma le due liste dei "Coltivatori Diretti della Vanga" e degli Indipendenti rientrano all'ovile.

Vengono recuperati i voti della lista "Campanile e Cupola"

che scompare e, mentre il marchese Panfilo Mazara si ritira dalla scena politica, un giovane commerciante, dinamico ed intraprendente, Paolo Di Bartolomeo, abbandona la barchetta liberale per salire sul transatlantico democristiano. Mentre i socialisti mantengono intatti i propri suffragi, conquistano 2 seggi i comunisti (6 seggi, 20.28% e 2.330 voti) ed un seggio il Movimento Sociale (3 seggi, 1137 voti pari al 9.87%). Diviene sindaco di Sulmona il generale, Ruggieri. Ricomposte al suo interno le gravi fratture, la Democrazia Cristiana affronta il terzo (quarto se si considera l'amministrazione Mazara) periodo amministrativo del dopoguerra, durante il quale viene dato il via ad una complessa manovra politica ed economica tendente ad industrializzare la Valle Peligna. Attraverso gli incentivi per l'industrializzazione del Mezzogiorno in quegli anni si avviano le trattative per far insediare nella Valle Peligna l'Adriatica Componenti Elettronici. Sul finire degli anni '50 verrÁ posta la prima pietra della fabbrica. Nel manifesto annunciante la cerimonia venne scritto, scomodando il Virgilio delle Ecloghe, "et carpent mea poma nepotes" (i posteri raccoglieranno i miei frutti) e seguivano i nomi dei due Vescovi di Sulmona, il titolare ormai invecchiato, il buon patriarca Luciano Marcante, ed il Vicario, Francesco Amadio, un marchigiano energico e combattivo, e gli altri dell'ingegner Fonzi, un dirigente d'azienda, anche questo marchigiano energico e combattivo, delle eccellenze Natali e Gaspari e cosÍ via. Era nata la Borghesia di Stato.

Il primo segnale di questo lieto evento viene colto nella tornata elettorale per il quarto periodo amministrativo sulmonese del dopoguerra. Nel novembre del '61 le urne dei seggi elettorali danno il seguente e perentorio risultato: Democrazia Cristiana, 6.366 voti, pari al 54.40%, 20 consiglieri; PCI, 1831 voti, pari al 15.64%, 5 consiglieri; PSI, 1275 voti, pari al 14.75%, 4 consiglieri; MSI, 651 voti, pari al 5.56%, 1 consigliere. Questi dati possono riassumere il senso della rivolta popolare del 2 e 3 febbraio a Sulmona. Nata da presupposti "borghesi", cioÉ interni al partito della Democrazia Cristiana, quella rivolta ha avuto una storia e motivazioni proprie ed É stata usata per il raggiungimento di quei risultati per i quali "i borghesi di stato" di Sulmona avevano lottato ed erano stati sconfitti dai loro "amici" aquilani. Dopo l'insediamento dell'ACE a Sulmona, che altro non era se non la multinazionale tedesca Siemens Elettra sotto smentite spoglie, avvenuto nel '63, verrÁ creato il Consorzio per il Nucleo Industriale (1970) e quindi verrÁ l'insediamento della Fiat. Quindi l'autostrada, le altre fabbriche. Masse di finanziamenti pubblici da gestire per investimenti che a dir poco non si dimostreranno produttivi.

Questi, perÔ, sono aspetti diversi della stessa storia sui quali per il momento ci fermiamo.

 

INTERVISTA A CLAUDIO DI GIROLAMO (novembre 1980)

 

 

- Cosa ha rappresentato il Distretto Militare a Sulmona?

- Le dico spassionatamente che il Distretto in sÊ non rappresentava proprio niente o, al limite, costituiva una entitÁ trascurabile per l'economia cittadina.

Forse rappresentava qualcosa per la categoria dei commercianti perchÊ provocava un certo movimento di giovani, che andavano soldati, soprattutto per i negozi, trattorie, locande e simili. Il Distretto poi dava lavoro agli impiegati.

Ma in realtÁ era cosa ben poca. Voglio far rilevare questo, ed anche altri l'hanno detto, e cioÉ che il Distretto era stato l'ultimo elemento che ha spinto la popolazione sulmonese, che era alla disperazione, a fare quei moti. E per mentalitÁ piccolo-borghese, si interpretÔ la vicenda del distretto come spoliazione che Sulmona subÍ, dopo la ristrutturazione amministrativa successiva al parlamento.

- Non le sembra che, in presenza di un'economia cosÍ misera (lei ha appena affermato che i Sulmonesi erano alla disperazione), le ragioni per protestare fossero ben altre che non quelle relative alla "spoliazione amministrativa"?.

- Ahah... sÍ, capisco..., bisogna dire questo, che a Sulmona, dal '45 in poi, sono state fatte molte lotte promosse da organizzazioni sindacali e contadine. Ma queste lotte non hanno sortito mai un effetto positivo; cioÉ non sono mai state cosÍ forti da far intervenire le AutoritÁ.

- Formulando in maniera piÝ esplicita la precedente domanda le chiedo: É evidente la sproporzione tra l'impegno di lotta, in presenza di una situazione economica addirittura disperata, ed il suo obiettivo, tutto sommato "cosa ben poca", come lei ha sottolineato. La permanenza del Distretto in cittÁ non avrebbe certo risollevato l'economia della zona; allora perchÊ quelle due giornate di protesta cosÍ violenta?

- In sostanza la lotta non fu fatta per il Distretto in sÊ e per sÊ. La lotta fu fatta per richiamare l'attenzione delle AutoritÁ - piÝ che locali, chÊ queste conoscevano bene la situazione, centrali - sulla situazione in cui viveva questa plaga dell'Abruzzo.

Anche le pressioni che compivano le autoritÁ locali democristiane come quelle nazionali, non sortivano alcun effetto. Allora si faceva una politica di paternalismo, c'era una situazione di prepotere e non di potere. Prepotere democristiano. E questo prepotere non concedeva assolutamente nulla neanche ai richiami di questi dirigenti democristiani locali.

- E quale era il motivo per cui accadeva questo secondo lei?

- Mah! i motivi possono essere tanti; forse perchÊ in questa zona nemmeno i democristiani riuscivano ad esprimere un elemento che potesse prevalere dal punto di vista elettorale e politico. E se ciÔ vale per la democrazia cristiana, figuriamoci per gli altri partiti.

PerciÔ, oltre alla depressione economica, anche quella politica, per cui i dirigenti provinciali, come quelli nazionali, non tenevano in alcun conto questa zona.

- In quel periodo, di fronte alla crisi, qual' É stata la linea politica del PCI?

- Anche in quella circostanza la linea del partito comunista fu quella di realizzare le piÝ vaste alleanze. Contadini, sottoproletariato, ceto medio, commercianti, artigiani. Ed É questa la politica fatta dal PCI che convogliÔ, anche obtorto collo - come direbbero gli avvocati - la Democrazia Cristiana a far parte di quel Comitato di Difesa Cittadina, che guidÔ le successive lotte. Il Partito Comunista operava all'interno di questo Comitato e dall'altro operava all'esterno collegandosi direttamente alla cittadinanza. E se uno sviluppo di questa organizzazione politica c'É stato, ciÔ É stato possibile appunto grazie all'attivitÁ svolta durante quel periodo di lotta. Per la veritÁ debbo dire, e non perchÊ in quel momento dirigevo io il PCI, che in quelle lotte, e quando si trattava di fare riunioni, e quando si trattava di stare sulla piazza, il Partito Comunista É stato sempre presente in forze.

- E perchÊ mai la Democrazia Cristiana, nelle successive elezioni politiche avanzÔ tanto, che alle Botteghe Oscure si disse che a Sulmona i comunisti erano "pazzi" ?

Quello che dice non É in tutto esatto, perchÊ il Partito Comunista nelle elezioni quasi raddoppiÔ i voti elettorali di quell'epoca. Anzi, le dirÔ che mi trovavo proprio alle Botteghe Oscure in quei giorni delle elezioni e, sarÁ un aneddoto, ma si disse "meno male che a Sulmona si sono raddoppiati i voti, altrimenti non avremmo saputo cosa mettere nei titoli di testa dell'UnitÁ" in quanto nelle elezioni di altri comuni il Partito Comunista Italiano non aveva registrato alcun progresso. Inoltre lei deve tener presente un'altra questione, e cioÉ che qui a Sulmona per le elezioni si precipitarono tutti i ministri a promettere mari e monti per la cittÁ, tant'É vero che, a chiusura della campagna elettorale della Democrazia Cristiana, venne il sottosegretario Campilli a promettere, nella maniera piÝ sviscerata, al Teatro Comunale gremito fino all'inverosimile, una industria, e disse "State attenti a come votate. Non vi fate sfuggire questa industria votando male". Si capisce che la popolazione, giÁ ridotta in miseria, con la prospettiva di questa industria che poi mai venne, - tant'É che quelle promesse non mantenute furono chiamate " campillate " - poi votÔ come votÔ.

Si esercitÔ quindi una pressione enorme sulla popolazione e, tornando ai risultati elettorali, se puÔ sembrare che vinse la DC a prima vista, effettivamente non fu cosÍ, perchÊ anche il PCI andÔ innanzi nonostante le fortissime pressioni.

Date ad un affamato un tozzo di pane e quello si arrende.

Questo accadde, penso, ai cittadini di Sulmona.

- Abbiamo considerato la linea del PCI e della DC. E gli altri partiti, per esempio il PSI?

- Non mi sembra che il Partito Socialista di Sulmona si caratterizzasse con proprie iniziative politiche; per lo piÝ si muoveva a rimorchio del PCI, anche se aveva qualche dirigente, come Nicola Serafini, capogruppo dei consiglieri comunali socialisti, che si dava molto da fare. Ma il suo, piÝ che un reale collegamento con le masse, era un lavoro individuale.

- E gli altri partiti?

- Per la DC, abbiamo giÁ visto, salvo a dire che in quel periodo segretario ne era il professor Critani, che ebbe un comportamento sincero e leale, posso dire; ma non era di Sulmona, bensÍ di Pescara, penso. Degli altri partiti c'era l'avvocato Giovanni Autiero, liberale.

- Tra gli altri protagonisti di quelle due giornate si parla molto del Prefetto Ugo Morosi. Quale fu il suo ruolo?

- Beh!... il ruolo del Prefetto... se possiamo dire, fu l'insipienza di questo benedetto uomo..., si sapeva che c'era puzzo di polvere a Sulmona (da sparo, ndr); non si aveva nulla, perÔ, contro la sua persona. Rappresentava il Governo, rappresentava lo Stato, come giuridicamente lo rappresenta; e si vide questo Prefetto in funzione dello Stato, come colui che aveva consumato l'ultimo sopruso contro questa cittadina.

- E il fatto che il Prefetto fosse aquilano?

- Mah!... io ho sempre creduto poco nel campanilismo. E' vero che nel passato ci sono state pressioni, che c'É stata noncuranza, e non solo per Sulmona, ma anche per il resto della Provincia. D'altra parte se andiamo nel campo nazionale, ogni capoluogo pensa prima a sÊ e poi agli altri; É una cosa umana. Queste continue spoliazioni, che si protraevano dal 1910, e il fatto che si vedesse progredire un'altra cittÁ e non la propria, facevano di L'Aquila l'antagonista diretta di Sulmona, la causa, quasi, delle sue miserie.

E le due giornate? esiste, o meglio, ricorda qualche fatto particolare che va oltre le celebrazioni e l'aneddotica ormai di pubblico dominio?

- Debbo dire questo: si deve all'acume dell'allora sostituto procuratore della repubblica, dottor Salvatore Sambenedetto, se le giornate di rivolta furono solo due e se nei giorni successivi non capitÔ qualcosa di peggio.

- Si É corso anche questo pericolo?

- Certo! in quei giorni a Sulmona si É corso il pericolo che si verificassero disastri. E fu per l'acume, ripeto, del dottor Sambenedetto, ed anche per l'azione che svolsi, per il ruolo che in qualche modo svolgevo nella vita politica, che si evitÔ qualche disastro.

Nella notte tra domenica 3 e lunedÍ 4, venni svegliato da alcuni giovani, i quali, quasi fuori di sÊ, mi dissero che si erano procurati delle polveri, della dinamite, e volevano il mio consenso per far saltare la ferrovia Sulmona-L'Aquila, tratto Sulmona-Pratola Superiore. Fu allora che costrinsi alla ragione questi giovani, i quali prendevano le piÝ svariate iniziative nel corso di questa lotta rivoltosa.

La liberazione degli arrestati, tempestivamente interrogati e quindi liberati dal giudice Sambenedetto che si recÔ a Chieti, buttÔ definitivamente acqua sul fuoco e non si ebbero ulteriori motivi di disordine.

C'É poi da dire che, in quelle due giornate, io insieme ad altri esponenti comunisti dovetti faticare non poco a mantenere la rivolta entro limiti, se non accettabili, almeno non catastrofici. Erano giÁ pronte le bottiglie molotov, come pure erano stati preparati caldai di acqua bollente, pronti per essere rovesciati sulla polizia che percorreva Corso Ovidio in lotta con la popolazione sulmonese. Anche in questa circostanza si chiese il via per queste azioni bellicose; questo via perÔ fu assolutamente negato perchÊ noi, che bene o male sentivamo la responsabilitÁ di quello che stava accadendo, non volevamo che si arrivasse ad eccessi inauditi. E cosÍ si impedÍ il gettito sia delle molotov che dell'acqua bollente.

- PuÔ precisare meglio l'azione svolta dal procuratore Sambenedetto?

Gli arrestati furono portati nottetempo a Chieti; tra questi c'era anche mio fratello che era stato scambiato per il sottoscritto e per questo prese una buona quantitÁ di calci dalla polizia. Appena si sparse questa notizia, l'indomani mattina, il ,Sostituto Procuratore si portÔ immediatamente a Chieti, sottopose in giornata tutti gli arrestati ad interrogatorio e, nella stessa serata, tutti furono rilasciati. Fu un'azione che calmÔ di molto gli animi.

- Le due giornate di Sulmona furono anche occasione di un dibattito parlamentare nelle sedute dal 26 al 28 marzo del' 57; in quella occasione si fece, da parte dei sulmonesi, quella famosa "marcia su Roma", preconizzata dal dottor Giorgio De Monte in quella ormai famosa assemblea cittadina svoltasi al teatro comunale, subito dopo il trafugamento notturno del DÍstretto Militare. Una foto lo ritrae mentre, dal predellino di una macchina, arringa una piccola folla. Come andarono quei fatti?

- In occasione della discussione a Montecitorio sui fatti di Sulmona fu organizzata, appunto, un'autocolonna di tre o quattrocento cittadini ma, per la veritÁ, io ero partito alla volta di Roma qualche giorno prima per organizzare questa azione; in pratica per procurare, con alla mano un elenco di cittadini che sarebbero venuti a Roma con l'autocolonna per assistere alla discussione in Parlamento, i biglietti di ingresso. Riuscii ad avere questi permessi che furono rilasciati, per la veritÁ, dai parlamentari di tutti i partiti.

Quando l'autocolonna, sulla Salaria, giunse alle porte di Roma, all'altezza dello Stabilimento Squibb fu fermata da uno sbarramento di polizia. lo avevo preso accordo con l'avvocato Autiero, che guidava l'autocolonna, per incontrarci sul piazzale di Montecitorio. Non vedendoli giungere, pensai ad un ritardo; ma i minuti e le ore passavano, per cui mi affrettai ad andare loro incontro e trovai una situazione di scontro imminente tra la polizia ed i sulmonesi dell'autocolonna.

Il questore, o vice questore che fosse, assolutamente non voleva fare entrare in Roma l'autocolonna ed alcuni nostri concittadini andarono a chiedere man forte agli operai del vicino stabilimento della Squibb, nel caso di scontri con la polizia. E gli operai dettero il loro assenso. Come mi si riferÍ si dichiararono in pratica disponibili ad intervenire " nel caso che dovesse accadere qualcosa ". Quindi anche qui le cose si stavano mettendo male. PerchÊ questo? perchÊ, mi si disse successivamente, alcuni poliziotti che stavano lÍ, o forse una buona parte dei poliziotti, erano stati a Sulmona nella giornata dei moti ed avevano ricevuto "un sacco di mazzate", diciamo cosÍ, erano stati abbondantemente malmenati. E qualcuno di questi, mi É stato riferito, disse: "Adesso ve la facciamo pagare; qui siamo in ambiente aperto e non potete scappare nei vicoli come avete fatto a Sulmona".

La situazione era diventata drammatica. Ad un certo punto intervenne anche l'onorevole Giulio Spallone, eletto nel Collegio di Avezzano, che trovai sul luogo. Dal posto di blocco l'onorevole Spallone chiamÔ ripetutamente il Ministro degli Interni che perÔ si faceva continuamente negare. Ed io giunsi proprio mentre il questore diceva ai sulmonesi della autocolonna che avrebbe consentito il transito solo ai possessori del permesso per entrare a Montecitorio.

Arrivai proprio come la manna dal cielo e dissi: " Signori miei, se la situazione É questa, io ho 400 permessi per entrare alla Camera "; salii sul cofano di una macchina e, facendo l'appello, distribuii 400 permessi. Allora la polizia si sentÍ disarmata moralmente e materialmente perchÊ di fronte ai permessi parlamentari non potÊ fare piÝ nulla e dovÊ concedere il passi.

Alla Camera si discusse; intervennero tutti i partiti. Si partiva dalla situazione di Sulmona per arrivare alla crisi dell'Abruzzo e del Mezzogiorno; le solite analisi, le solite cose e si concluse con una mozione, che fu sÍ presentata da alcuni parlamentari quali Corbi e Spataro, ma che in effetti fu scritta da Sardi De Letto, da Autiero e dal sottoscritto.

- La rivolta di Sulmona: rivolta "borghese"?

- Si voleva a tutti i costi, da parte di certi giornali, forse anche sotto il suggerimento di qualche ministro, minimizzare l'apporto della popolazione alla rivolta, con la sua connotazione particolare di protesta contro il Governo. Ma debbo dire che tutte le categorie sociali - allora non si poteva parlare di classi sociali, almeno per la concezione marxista di classe che ho io, il capitale, il proletariato, perchÊ tutti quanti eravamo semiproletari o quasi allora - parteciparono alla rivolta. Rivolta che si cercÔ di condurre nell'ambito borghese. In effetti vi É stata una mobilitazione generale di tutta la cittÁ: dagli edili ai contadini, ai commercianti - i quali presumevano di essere tra i piÝ colpiti dal trasferimento del Distretto - agli artigiani, ai cosiddetti intellettuali della cittÁ, medici, avvocati, tutti risentivano della miseria della economia cittadina e tutti presero parte a questo vastissimo movimento. E perciÔ si cercÔ di prendere la palla al balzo per dire che era una rivolta borghese cercando di isolare questo moto dal suo contesto naturale. E ad anni di distanza, un liberale, l'amico Aldo Di Bene, detto, ebbe a riconoscere che non fu una rivolta borghese, ma una rivolta di popolo; non solo, ma ad onor del vero, debbo dire che anche il clero ebbe un atteggiamento silenzioso, dignitoso, ma di completo appoggio alla rivolta. E questo É quanto dire. Si era costituita una unitÁ direi totale della popolazione, ad eccezione dei vertici della Democrazia Cristiana, che si sentiva sfuggire qualcosa in quei momenti.

INTERVISTA A CLAUDIO DI GIROLAMO (novembre 1980)

 

 

- Cosa ha rappresentato il Distretto Militare a Sulmona?

- Le dico spassionatamente che il Distretto in sÊ non rappresentava proprio niente o, al limite, costituiva una entitÁ trascurabile per l'economia cittadina.

Forse rappresentava qualcosa per la categoria dei commercianti perchÊ provocava un certo movimento di giovani, che andavano soldati, soprattutto per i negozi, trattorie, locande e simili. Il Distretto poi dava lavoro agli impiegati.

Ma in realtÁ era cosa ben poca. Voglio far rilevare questo, ed anche altri l'hanno detto, e cioÉ che il Distretto era stato l'ultimo elemento che ha spinto la popolazione sulmonese, che era alla disperazione, a fare quei moti. E per mentalitÁ piccolo-borghese, si interpretÔ la vicenda del distretto come spoliazione che Sulmona subÍ, dopo la ristrutturazione amministrativa successiva al parlamento.

- Non le sembra che, in presenza di un'economia cosÍ misera (lei ha appena affermato che i Sulmonesi erano alla disperazione), le ragioni per protestare fossero ben altre che non quelle relative alla "spoliazione amministrativa"?.

- Ahah... sÍ, capisco..., bisogna dire questo, che a Sulmona, dal '45 in poi, sono state fatte molte lotte promosse da organizzazioni sindacali e contadine. Ma queste lotte non hanno sortito mai un effetto positivo; cioÉ non sono mai state cosÍ forti da far intervenire le AutoritÁ.

- Formulando in maniera piÝ esplicita la precedente domanda le chiedo: É evidente la sproporzione tra l'impegno di lotta, in presenza di una situazione economica addirittura disperata, ed il suo obiettivo, tutto sommato "cosa ben poca", come lei ha sottolineato. La permanenza del Distretto in cittÁ non avrebbe certo risollevato l'economia della zona; allora perchÊ quelle due giornate di protesta cosÍ violenta?

- In sostanza la lotta non fu fatta per il Distretto in sÊ e per sÊ. La lotta fu fatta per richiamare l'attenzione delle AutoritÁ - piÝ che locali, chÊ queste conoscevano bene la situazione, centrali - sulla situazione in cui viveva questa plaga dell'Abruzzo.

Anche le pressioni che compivano le autoritÁ locali democristiane come quelle nazionali, non sortivano alcun effetto. Allora si faceva una politica di paternalismo, c'era una situazione di prepotere e non di potere. Prepotere democristiano. E questo prepotere non concedeva assolutamente nulla neanche ai richiami di questi dirigenti democristiani locali.

- E quale era il motivo per cui accadeva questo secondo lei?

- Mah! i motivi possono essere tanti; forse perchÊ in questa zona nemmeno i democristiani riuscivano ad esprimere un elemento che potesse prevalere dal punto di vista elettorale e politico. E se ciÔ vale per la democrazia cristiana, figuriamoci per gli altri partiti.

PerciÔ, oltre alla depressione economica, anche quella politica, per cui i dirigenti provinciali, come quelli nazionali, non tenevano in alcun conto questa zona.

- In quel periodo, di fronte alla crisi, qual' É stata la linea politica del PCI?

- Anche in quella circostanza la linea del partito comunista fu quella di realizzare le piÝ vaste alleanze. Contadini, sottoproletariato, ceto medio, commercianti, artigiani. Ed É questa la politica fatta dal PCI che convogliÔ, anche obtorto collo - come direbbero gli avvocati - la Democrazia Cristiana a far parte di quel Comitato di Difesa Cittadina, che guidÔ le successive lotte. Il Partito Comunista operava all'interno di questo Comitato e dall'altro operava all'esterno collegandosi direttamente alla cittadinanza. E se uno sviluppo di questa organizzazione politica c'É stato, ciÔ É stato possibile appunto grazie all'attivitÁ svolta durante quel periodo di lotta. Per la veritÁ debbo dire, e non perchÊ in quel momento dirigevo io il PCI, che in quelle lotte, e quando si trattava di fare riunioni, e quando si trattava di stare sulla piazza, il Partito Comunista É stato sempre presente in forze.

- E perchÊ mai la Democrazia Cristiana, nelle successive elezioni politiche avanzÔ tanto, che alle Botteghe Oscure si disse che a Sulmona i comunisti erano "pazzi" ?

Quello che dice non É in tutto esatto, perchÊ il Partito Comunista nelle elezioni quasi raddoppiÔ i voti elettorali di quell'epoca. Anzi, le dirÔ che mi trovavo proprio alle Botteghe Oscure in quei giorni delle elezioni e, sarÁ un aneddoto, ma si disse "meno male che a Sulmona si sono raddoppiati i voti, altrimenti non avremmo saputo cosa mettere nei titoli di testa dell'UnitÁ" in quanto nelle elezioni di altri comuni il Partito Comunista Italiano non aveva registrato alcun progresso. Inoltre lei deve tener presente un'altra questione, e cioÉ che qui a Sulmona per le elezioni si precipitarono tutti i ministri a promettere mari e monti per la cittÁ, tant'É vero che, a chiusura della campagna elettorale della Democrazia Cristiana, venne il sottosegretario Campilli a promettere, nella maniera piÝ sviscerata, al Teatro Comunale gremito fino all'inverosimile, una industria, e disse "State attenti a come votate. Non vi fate sfuggire questa industria votando male". Si capisce che la popolazione, giÁ ridotta in miseria, con la prospettiva di questa industria che poi mai venne, - tant'É che quelle promesse non mantenute furono chiamate " campillate " - poi votÔ come votÔ.

Si esercitÔ quindi una pressione enorme sulla popolazione e, tornando ai risultati elettorali, se puÔ sembrare che vinse la DC a prima vista, effettivamente non fu cosÍ, perchÊ anche il PCI andÔ innanzi nonostante le fortissime pressioni.

Date ad un affamato un tozzo di pane e quello si arrende.

Questo accadde, penso, ai cittadini di Sulmona.

- Abbiamo considerato la linea del PCI e della DC. E gli altri partiti, per esempio il PSI?

- Non mi sembra che il Partito Socialista di Sulmona si caratterizzasse con proprie iniziative politiche; per lo piÝ si muoveva a rimorchio del PCI, anche se aveva qualche dirigente, come Nicola Serafini, capogruppo dei consiglieri comunali socialisti, che si dava molto da fare. Ma il suo, piÝ che un reale collegamento con le masse, era un lavoro individuale.

- E gli altri partiti?

- Per la DC, abbiamo giÁ visto, salvo a dire che in quel periodo segretario ne era il professor Critani, che ebbe un comportamento sincero e leale, posso dire; ma non era di Sulmona, bensÍ di Pescara, penso. Degli altri partiti c'era l'avvocato Giovanni Autiero, liberale.

- Tra gli altri protagonisti di quelle due giornate si parla molto del Prefetto Ugo Morosi. Quale fu il suo ruolo?

- Beh!... il ruolo del Prefetto... se possiamo dire, fu l'insipienza di questo benedetto uomo..., si sapeva che c'era puzzo di polvere a Sulmona (da sparo, ndr); non si aveva nulla, perÔ, contro la sua persona. Rappresentava il Governo, rappresentava lo Stato, come giuridicamente lo rappresenta; e si vide questo Prefetto in funzione dello Stato, come colui che aveva consumato l'ultimo sopruso contro questa cittadina.

- E il fatto che il Prefetto fosse aquilano?

- Mah!... io ho sempre creduto poco nel campanilismo. E' vero che nel passato ci sono state pressioni, che c'É stata noncuranza, e non solo per Sulmona, ma anche per il resto della Provincia. D'altra parte se andiamo nel campo nazionale, ogni capoluogo pensa prima a sÊ e poi agli altri; É una cosa umana. Queste continue spoliazioni, che si protraevano dal 1910, e il fatto che si vedesse progredire un'altra cittÁ e non la propria, facevano di L'Aquila l'antagonista diretta di Sulmona, la causa, quasi, delle sue miserie.

E le due giornate? esiste, o meglio, ricorda qualche fatto particolare che va oltre le celebrazioni e l'aneddotica ormai di pubblico dominio?

- Debbo dire questo: si deve all'acume dell'allora sostituto procuratore della repubblica, dottor Salvatore Sambenedetto, se le giornate di rivolta furono solo due e se nei giorni successivi non capitÔ qualcosa di peggio.

- Si É corso anche questo pericolo?

- Certo! in quei giorni a Sulmona si É corso il pericolo che si verificassero disastri. E fu per l'acume, ripeto, del dottor Sambenedetto, ed anche per l'azione che svolsi, per il ruolo che in qualche modo svolgevo nella vita politica, che si evitÔ qualche disastro.

Nella notte tra domenica 3 e lunedÍ 4, venni svegliato da alcuni giovani, i quali, quasi fuori di sÊ, mi dissero che si erano procurati delle polveri, della dinamite, e volevano il mio consenso per far saltare la ferrovia Sulmona-L'Aquila, tratto Sulmona-Pratola Superiore. Fu allora che costrinsi alla ragione questi giovani, i quali prendevano le piÝ svariate iniziative nel corso di questa lotta rivoltosa.

La liberazione degli arrestati, tempestivamente interrogati e quindi liberati dal giudice Sambenedetto che si recÔ a Chieti, buttÔ definitivamente acqua sul fuoco e non si ebbero ulteriori motivi di disordine.

C'É poi da dire che, in quelle due giornate, io insieme ad altri esponenti comunisti dovetti faticare non poco a mantenere la rivolta entro limiti, se non accettabili, almeno non catastrofici. Erano giÁ pronte le bottiglie molotov, come pure erano stati preparati caldai di acqua bollente, pronti per essere rovesciati sulla polizia che percorreva Corso Ovidio in lotta con la popolazione sulmonese. Anche in questa circostanza si chiese il via per queste azioni bellicose; questo via perÔ fu assolutamente negato perchÊ noi, che bene o male sentivamo la responsabilitÁ di quello che stava accadendo, non volevamo che si arrivasse ad eccessi inauditi. E cosÍ si impedÍ il gettito sia delle molotov che dell'acqua bollente.

- PuÔ precisare meglio l'azione svolta dal procuratore Sambenedetto?

Gli arrestati furono portati nottetempo a Chieti; tra questi c'era anche mio fratello che era stato scambiato per il sottoscritto e per questo prese una buona quantitÁ di calci dalla polizia. Appena si sparse questa notizia, l'indomani mattina, il ,Sostituto Procuratore si portÔ immediatamente a Chieti, sottopose in giornata tutti gli arrestati ad interrogatorio e, nella stessa serata, tutti furono rilasciati. Fu un'azione che calmÔ di molto gli animi.

- Le due giornate di Sulmona furono anche occasione di un dibattito parlamentare nelle sedute dal 26 al 28 marzo del' 57; in quella occasione si fece, da parte dei sulmonesi, quella famosa "marcia su Roma", preconizzata dal dottor Giorgio De Monte in quella ormai famosa assemblea cittadina svoltasi al teatro comunale, subito dopo il trafugamento notturno del DÍstretto Militare. Una foto lo ritrae mentre, dal predellino di una macchina, arringa una piccola folla. Come andarono quei fatti?

- In occasione della discussione a Montecitorio sui fatti di Sulmona fu organizzata, appunto, un'autocolonna di tre o quattrocento cittadini ma, per la veritÁ, io ero partito alla volta di Roma qualche giorno prima per organizzare questa azione; in pratica per procurare, con alla mano un elenco di cittadini che sarebbero venuti a Roma con l'autocolonna per assistere alla discussione in Parlamento, i biglietti di ingresso. Riuscii ad avere questi permessi che furono rilasciati, per la veritÁ, dai parlamentari di tutti i partiti.

Quando l'autocolonna, sulla Salaria, giunse alle porte di Roma, all'altezza dello Stabilimento Squibb fu fermata da uno sbarramento di polizia. lo avevo preso accordo con l'avvocato Autiero, che guidava l'autocolonna, per incontrarci sul piazzale di Montecitorio. Non vedendoli giungere, pensai ad un ritardo; ma i minuti e le ore passavano, per cui mi affrettai ad andare loro incontro e trovai una situazione di scontro imminente tra la polizia ed i sulmonesi dell'autocolonna.

Il questore, o vice questore che fosse, assolutamente non voleva fare entrare in Roma l'autocolonna ed alcuni nostri concittadini andarono a chiedere man forte agli operai del vicino stabilimento della Squibb, nel caso di scontri con la polizia. E gli operai dettero il loro assenso. Come mi si riferÍ si dichiararono in pratica disponibili ad intervenire " nel caso che dovesse accadere qualcosa ". Quindi anche qui le cose si stavano mettendo male. PerchÊ questo? perchÊ, mi si disse successivamente, alcuni poliziotti che stavano lÍ, o forse una buona parte dei poliziotti, erano stati a Sulmona nella giornata dei moti ed avevano ricevuto "un sacco di mazzate", diciamo cosÍ, erano stati abbondantemente malmenati. E qualcuno di questi, mi É stato riferito, disse: "Adesso ve la facciamo pagare; qui siamo in ambiente aperto e non potete scappare nei vicoli come avete fatto a Sulmona".

La situazione era diventata drammatica. Ad un certo punto intervenne anche l'onorevole Giulio Spallone, eletto nel Collegio di Avezzano, che trovai sul luogo. Dal posto di blocco l'onorevole Spallone chiamÔ ripetutamente il Ministro degli Interni che perÔ si faceva continuamente negare. Ed io giunsi proprio mentre il questore diceva ai sulmonesi della autocolonna che avrebbe consentito il transito solo ai possessori del permesso per entrare a Montecitorio.

Arrivai proprio come la manna dal cielo e dissi: " Signori miei, se la situazione É questa, io ho 400 permessi per entrare alla Camera "; salii sul cofano di una macchina e, facendo l'appello, distribuii 400 permessi. Allora la polizia si sentÍ disarmata moralmente e materialmente perchÊ di fronte ai permessi parlamentari non potÊ fare piÝ nulla e dovÊ concedere il passi.

Alla Camera si discusse; intervennero tutti i partiti. Si partiva dalla situazione di Sulmona per arrivare alla crisi dell'Abruzzo e del Mezzogiorno; le solite analisi, le solite cose e si concluse con una mozione, che fu sÍ presentata da alcuni parlamentari quali Corbi e Spataro, ma che in effetti fu scritta da Sardi De Letto, da Autiero e dal sottoscritto.

- La rivolta di Sulmona: rivolta "borghese"?

- Si voleva a tutti i costi, da parte di certi giornali, forse anche sotto il suggerimento di qualche ministro, minimizzare l'apporto della popolazione alla rivolta, con la sua connotazione particolare di protesta contro il Governo. Ma debbo dire che tutte le categorie sociali - allora non si poteva parlare di classi sociali, almeno per la concezione marxista di classe che ho io, il capitale, il proletariato, perchÊ tutti quanti eravamo semiproletari o quasi allora - parteciparono alla rivolta. Rivolta che si cercÔ di condurre nell'ambito borghese. In effetti vi É stata una mobilitazione generale di tutta la cittÁ: dagli edili ai contadini, ai commercianti - i quali presumevano di essere tra i piÝ colpiti dal trasferimento del Distretto - agli artigiani, ai cosiddetti intellettuali della cittÁ, medici, avvocati, tutti risentivano della miseria della economia cittadina e tutti presero parte a questo vastissimo movimento. E perciÔ si cercÔ di prendere la palla al balzo per dire che era una rivolta borghese cercando di isolare questo moto dal suo contesto naturale. E ad anni di distanza, un liberale, l'amico Aldo Di Bene, detto, ebbe a riconoscere che non fu una rivolta borghese, ma una rivolta di popolo; non solo, ma ad onor del vero, debbo dire che anche il clero ebbe un atteggiamento silenzioso, dignitoso, ma di completo appoggio alla rivolta. E questo É quanto dire. Si era costituita una unitÁ direi totale della popolazione, ad eccezione dei vertici della Democrazia Cristiana, che si sentiva sfuggire qualcosa in quei momenti.

 

Image1.jpg (29118 byte)

dal sito :

http://digilander.libero.it/nadiapad/

 http://www.smpe.it/storia/jamme4.asp

 

'' La rivolta di Jamm' mo'

' Parte prima

JAMM' MO'.
Due parole del dialetto sulmonese urlate da migliaia di voci come un grido di guerra nelle "Due giornate" del 2 e 3 febbraio 1957, una sorta di Intifada ante-litteram.
Andiamo ora! Questo ? l'essenza della frase, che racchiude una sollevazione interamente spontanea di una popolazione intera, che senza nessuna distinzione di classe insorse a difesa della sua dignit?, contro l'ennesima spoliazione. Punto centrale della rivolta di "Jamm' mè" (che in ambienti governativi fu definita borghese per minimizzare l'apporto della popolazione) ? la soppressione del distretto militare, fatto che costituir? la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Sulmona ha avuto un lungo percorso storico fatto di spoliazioni, torti e privazioni subiti dalle varie autorit? succedutesi nel tempo, in primis dal capoluogo di provincia.
Ma parallelamente la citt? ha coscienza della sua importanza, delle proprie tradizioni militari, dei suoi inalienabili diritti. Da questo contrasto ? scoccata la scintilla che ha trasformato pacifici cittadini in rivoltosi.
La cronologia di "Jamm' mè" parte nell'agosto del 1954, quando l'allora titolare del Ministero della Difesa, Paolo Emilio Taviani, in esecuzione di alcune direttive della NATO, tese a ristrutturare la rete degli eserciti alleati in Europa, deve sopprimere 54 distretti militari in Italia. Tra questi ? compreso quello di Sulmona.
Quando la notizia trapela in citt?, l'amministrazione guidata dal Sindaco Ercole Tirone, non rimane inerte. Viene immediatamente convocato un Consiglio Comunale straordinario per il giorno 19 agosto che si conclude con le dimissioni all'unanimit? del Consiglio stesso.
Immediatamente viene formato un Comitato di agitazione che proclama uno sciopero di 24 ore per il giorno successivo.
La citt? ? in fermento, al Municipio accorrono 40 dei 65 sindaci dei comuni compresi nell'ambito territoriale del distretto e gli altri sindaci non pervenuti, fanno giungere dichiarazioni di piena solidariet?.
Tutto il Centro Abruzzo era legato al distretto militare, punto di riferimento patriottico per essere stato il luogo di mobilitazione nei due conflitti mondiali. Piü di cinquemila persone si accalcheranno a Piazza XX Settembre per sentire oratori di tutti i partiti politici difendere la presenza del distretto a Sulmona.
Nello stesso giorno una delegazione di amministratori locali, guidati dal Sindaco, si incontra con il Prefetto, il quale dichiara che ogni decisione in merito alla soppressione del distretto ? sospesa.


 

Sembrerebbe una vittoria, ma in tarda serata dal Ministero della Difesa giunge un telegramma al Sindaco che conferma il declassamento del distretto, il che costituisce l'anticamera della definitiva soppressione.
La reazione ? immediata: lo sciopero ? prolungato di un giorno e il Comitato di agitazione si costituisce in Comitato di Difesa Cittadina.
Il 24 agosto, una delegazione di sulmonesi, capitanata dal Vescovo Luciano Marcante, si incontra con il Ministro Taviani. Quest'ultimo li rassicura, assicurando loro che il distretto non verr? soppresso.
Ma la citt? non crede alle promesse del Ministro e rimane sempre in guardia.
Difatti alcuni giorni dopo, si diffonde la voce che il Ministro Taviani abbia solo congelato il provvedimento di soppressione, anzich? ritirarlo.
Fino al maggio 1955 la questione distretto cala d'intensit?, il Comitato di Difesa Cittadina va praticamente in disarmo, ma a met? maggio il Comandante del distretto ? trasferito ed il suo ufficio rimane vacante per un tempo stranamente superiore a quello fisiologicamente dovuto per l'avvicendamento della carica.
Il sindaco Tirone prontamente scrive al Ministro Taviani che, tuttavia non lo degna di una risposta. Nell'agosto dello stesso anno, si verifica un avvenimento che d? la misura del precipitare degli eventi: parte dei ritardatari della classe di leva 1934 sono inviati a L'Aquila per la rituale visita di selezione.
La tattica dilatoria del Ministro Taviani comincia a far sentire i suoi effetti.
Di nuovo il sindaco scrive al Ministro che nemmeno questa volta risponde. Si ricostituisce il Comitato di Difesa Cittadina. Le nubi sono sempre piü cupe all'orizzonte.
La citt? si mobilita di nuovo, ma a bloccare il tutto ci pensa una lettera dell'Onorevole Natali, il quale promette il suo interessamento per far sá che siano scongiurate decisioni definitive in merito al distretto. La mossa di Natali, aquilano, ? in realt? destinata a mitigare la tensione nell'opinione pubblica sulmonese, poich? per l'anno successivo ci sono le elezioni amministrative.
Ma le lacerazioni all'interno della Democrazia Cristiana esplodono, la legislatura si chiude anzitempo ed arriva un Commissario Prefettizio.
La DC si presenta alle urne divisa in tre tronconi: la DC ufficiale, Coltivatori Diretti-Vanga e Coltivatori Diretti.

 


 

Il responso delle urne per la DC ? pessimo; perde, infatti, nove seggi, mentre i Coltivatori Diretti-Vanga ottengono 3 consiglieri ed i Coltivatori Diretti 1 consigliere.
Anche in presenza di una flessione cosá severa, la DC potrebbe pretendere per s? il ruolo di sindaco, ma non lo fece preferendo che fosse nominato Panfilo Mazara, un liberale eletto con la lista civica Campanile e Cupola. Molti videro in quest'elezione il disegno della DC locale di far sbrogliare ad altri la patata bollente del distretto, come in effetti, avvenne.
Nel gennaio 1957 si sparge la voce che la soppressione definitiva del distretto, ormai senza Comandante dal maggio 1955, ? vicina. Nel frattempo a capo del Comitato di Difesa Cittadina ? posto il colonnello Francesco Sardi De Letto. Il 15 gennaio 1957, il Ministro Taviani appone la firma sul decreto di soppressione del distretto militare di Sulmona.
Il dado ? tratto.
Il 18 gennaio il Comitato di Difesa Cittadina convoca per il giorno dopo una manifestazione di protesta presso il Teatro Comunale. Il Sindaco da par suo convoca telegraficamente a Sulmona i colleghi dei 65 Comuni compresi nel territorio del Distretto, dichiaratisi solidali con la protesta sulmonese.
Tutto l'Abruzzo, eccetto il capoluogo di provincia, ? al fianco di Sulmona. Basti per tutti citare l'appassionato ordine del giorno di solidariet? votato all' unanimit? dal Consiglio Provinciale di Pescara.
Appena ricevutane notizia, il Prefetto Morosi (tra l'altro aquilano) diffida il Sindaco a concedere la struttura agli organizzatori della manifestazione, poich? il regolamento sull'uso del Teatro non prevedeva la concessione dello stesso per manifestazioni del genere.
Addirittura, con fare meschino, fa sapere al Sindaco che non lo rimborser? delle spese del telegrafo.
Ma il Sindaco Mazara, autentico gentiluomo liberale che ha rinunciato all'emolumento che gli spetta, e ha piü volte anticipato di tasca propria gli stipendi ai dipendenti comunali, risponde al Prefetto di darsi pace, perch? aveva gi? provveduto direttamente al pagamento, con il suo denaro.
Dopo aver concesso l'uso del Teatro al Comitato di Difesa Cittadina, il Sindaco convoca in seduta straordinaria il Consiglio Comunale.
Oramai ? guerra strisciante.

Parte seconda

Il giorno 19 gennaio, il Comitato di Difesa Cittadina non si limita ad indire comizi, ma lancia la parola d'ordine dello sciopero ad oltranza.
Subito dopo il Consiglio Comunale vota due ordini del giorno: il primo riguarda l'invio a Roma di una delegazione che si incontri con i parlamentari abruzzesi, il secondo riguarda la nomina di una commissione tecnico-parlamentare che venga nel territorio di Sulmona per rendersi conto che il distretto militare non debba essere soppresso, bensá rinforzato.
Il 21 gennaio inizia lo sciopero ad oltranza di tutte le categorie con l'esclusione degli ospedalieri, dei farmacisti, dei panificatori e dei ferrovieri.
I gestori di esercizi per la vendita al dettaglio adottano la formula dello sciopero a singhiozzo: solo due ore di apertura per consentire alla popolazione di approvvigionarsi.
Sciopereranno pure gli studenti (oltre 2000), verso i quali il provveditore agli studi di L'Aquila ordiner? dei provvedimenti punitivi.
Il 23 gennaio la delegazione sulmonese si incontra a Roma con i parlamentari abruzzesi. Da quest'incontro si riesce ad ottenere la promessa di istituire una commissione per verificare le ragioni della presenza del distretto militare a Sulmona.
Si fissa inoltre per il 29 gennaio un appuntamento con il Ministro Taviani.
Alla luce di questi avvenimenti sembra che si possa evitare la soppressione del distretto, e quindi viene dato lo stop allo sciopero ad oltranza.
Si resta in attesa dell'incontro del 29 gennaio, dai piü considerato risolutorio. Nei giorni che seguiranno, ci saranno molte telefonate tra Sulmona e Roma per avere informazioni sull'atteggiamento che terr? il Ministro.
Il giorno 27 gennaio gli onorevoli Spataro e Natali confermano l'incontro fissato per il 29 gennaio e ribadiscono che ? sospeso il trasferimento di materiale dal distretto di Sulmona a quello di L'Aquila.
Fatto st? che nella notte tra il 27 ed il 28 gennaio 1957 il Vice Questore di L'Aquila giunge a Sulmona con alcuni autocarri dell'esercito, scortati da pattuglie di carabinieri e viene trasferita tutta la documentazione del distretto di Sulmona al distretto di L'Aquila.
Contemporaneamente, altri reparti delle forze dell'ordine circondano l'isolato che ospita il distretto, fermando, fino a che il trasferimento di materiale non ? completato, i passanti occasionali, diffidandoli nel rilasciarli, di avvertire le autorit? cittadine di quanto ? avvenuto. Nel frattempo tutti i telefoni di Sulmona vengono bloccati. Terminato il trasferimento della documentazione, i militari rientrano a L'Aquila, mentre i carabinieri, agli ordini del vice questore rimangono a Sulmona allo scopo di prevenire eventuali disordini.



 

Piü tardi, il funzionario di Polizia giustificher? la sua presenza in Sulmona affermando di aver fatto una "passeggiata mattutina" (in pieno inverno) e che nulla sapeva dei fatti accaduti nella notte.
L'indomani, la risposte di Sulmona, tradita e vilipesa da un arrogante blitz notturno, ? immediata. Il Sindaco invia un indignatissimo telegramma di protesta al Ministro Taviani, rinfacciandoli le promesse che lo stesso aveva fatto per il tramite degli onorevoli Spataro e Natali.
Nonostante tutto, il 29 gennaio una delegazione sulmonese, capeggiata dal presidente del Comitato di Difesa Cittadina, Francesco Sardi De Letto, parte per Roma.
In mattinata viene ricevuta dal Ministro Taviani, il quale spiega i motivi della soppressione dei distretti militari in Italia. In pratica venivano soppressi 50 distretti militari in citt? non capoluogo di provincia, oltre a quelli di Ferrara, Parma, Reggio Emilia e Trapani.
I criteri che ispiravano questo ridimensionamento erano la funzionalit?, l'economia e le tradizioni storiche. A questo punto, De Letto, carte alla mano, riesce a dimostrare che Sulmona possiede appieno questi requisiti, al contrario di L'Aquila.
Taviani riconobbe le indiscutibili prerogative di Sulmona, ammettendo, tra le righe, che il provvedimento di soppressione del distretto di Sulmona era del tutto illogico. Ma ammetteva anche che, in tale vicenda, vi erano state influenze politiche, tanto ? vero che consigliè alla commissione di rivolgersi a Segni, allora Presidente del Consiglio.
Trapela dal colloquio avuto dalla delegazione con Taviani, la debolezza politica di Sulmona, che allora non era rappresentata n? a Montecitorio, n? a Palazzo Madama.
D'altronde, Natali e compagnia non erano sulmonesi. Da loro, impegnati a consolidare le proprie clientele all'ombra del Gran Sasso, la citt? di Ovidio non poteva aspettarsi protezione.
Il 31 gennaio, il Consiglio Comunale, in seduta straordinaria, si dimette in segno di protesta. Tutte le commissioni civiche ed i consigli di amministrazione dei vari enti cittadini, aderiscono unanimi rinunciando ai propri mandati. La paralisi amministrativa della Citt? ? completa.
Il 2 febbraio di prima mattina, il Prefetto di L'Aquila Dott. Morosi, in una conversazione telefonica con il dimissionario Sindaco Mazara, annuncia la sua visita a Sulmona e, nonostante che il Sindaco consapevole dell' inquietudine cittadina lo sconsigli insistentemente, egli non intende recedere dalla sua trasferta.
Dopo aver telefonato al Sindaco, il prefetto chiama il Commissario di Pubblica Sicurezza, Dott. Dattilo, chiedendogli di approntare un adeguato servizio d'ordine. Anche quest'ultimo cerca di far recedere il Prefetto dalle sue intenzioni, ma non ottiene nessun risultato.

Parte terza

In citt? si sparse la voce dell'arrivo del Prefetto, e ci si preparava ad offrirgli un'accoglienza memorabile. Verso le ore 10 del mattino arrivè.
Nel frattempo, secondo le direttive del Comitato di Difesa Cittadina, i muri della Citt? si tappezzavano di manifesti, recanti le scritte: "Vattene Via" "Non ti vogliamo".
I negozi abbassavano le saracinesche, si chiudevano finestre e balconi ed uno spontaneo sciopero di protesta paralizzava tutta la Citt?.
Prima di recarsi in Comune, il Prefetto fa sosta al Vescovado per rendere omaggio al Vescovo Luciano Marcante, lasciando il suo autista ad aspettarlo con una scorta di agenti.
La cittadinanza, disobbedendo alle direttive del Comitato di Difesa Cittadina, comincia a radunarsi e a rumoreggiare davanti al portone del Vescovado.
L'autista del Prefetto, forse impressionato dalla folla che andava crescendo, prese ad ingiuriare i sulmonesi gridando:
"Cosa vogliono questi fregnoni, che non pagano neanche le tasse ?".
La provocazione ? tale che la folla comincia a lanciare palle di neve contro l'autista del Prefetto e la sua macchina; al grido di "Vattene, torna a L'Aquila", cerca di ribaltare la macchina. L'autista, prudentemente, si rifugia all'interno del Vescovado.
Il Vescovo, sensatamente, consiglia al Prefetto di tornarsene a L'Aquila. Poco dopo, infatti, protetto dalla Polizia, tra grida della folla ed un fitto lancio di palle di neve, riesce a salire in macchina e a prendere la via per L'Aquila.
Giunto all'uscita della citt?, cambia parere: inverte la rotta, prende la Circonvallazione e, dopo un lungo giro, si reca in municipio.
La mossa perè non era sfuggita alla folla, che rapidamente da Piazza Tresca giunge davanti al portone del Municipio, in Via Mazara, qualche attimo dopo che il Prefetto ? riuscito a rifugiarvisi dentro.
Sono 10.30 del 2 febbraio 1957.


 


 

La notizia si sparge in un baleno, e in un'atmosfera surreale che ha come colonna sonora il suono delle campane che suonano a distesa, Palazzo San Francesco, sede del Municipio, ? letteralmente preso d'assedio da piü di tremila persone, che cercano di abbattere il portone d'ingresso.
Sentendosi in trappola, il Prefetto telefona ai Commissariati e alle caserme dei Carabinieri piü vicine a Sulmona, allertando contemporaneamente i militari di stanza a Sulmona, che rimangono a presidiare il Municipio finch? non arriveranno le forze di Ps richieste dal Prefetto.
Quest'ultimo, nel frattempo, dentro al Municipio ha delle accese discussioni con il Sindaco ed il Presidente del Comitato di Difesa Cittadina, definendoli responsabili morali di quanto sta succedendo.
Alle ore 12.30 arrivano i primi rinforzi.
Con una prima carica posta in essere congiuntamente da reparti di Polizia e di Carabinieri, che provocher? numerosi contusi, si riesce temporaneamente a disperdere la folla.
Le forze di Ps riescono ad attestarsi al Quadrivio, credendo di aver bloccato ogni via d'accesso al Municipio.
Ma il fatto di non essere originari di Sulmona, giocher? loro un brutto scherzo.
Infatti un gruppo di dimostranti riesce ad arrivare in Via Mazara, passando per Piazza XX Settembre e Via Carrese; da lá si infilano a Palazzo Mazara, allora sede dell'Istituto Tecnico per Geometri.
Comincia la demolizione dei banchi da scuola per farne oggetti da lancio e colpire gli agenti. Quest'ultimi, sorpresi dall'iniziativa si ritirano lanciando lacrimogeni.
Contemporaneamente, inizia l'attacco contro le finestre del Municipio; i vetri sono infranti, il Prefetto ? costretto a rifugiarsi in stanze piü sicure, mentre all'esterno la lotta divampa.
I dimostranti cominciano un fitto lancio di sassi contro le forze dell'ordine, cresce il numero di feriti da ambo le parti, ma sopratutto echeggia per la prima volta la frase che dar? il nome alla rivolta: JAMM' MO'.

La rivolta di Jamm' mè

' Parte quarta

Nel pomeriggio, tra le 15 e le 16, si ergono le prime barricate, nel tratto compreso tra il Quadrivio e la Fontana del Vecchio. Le forze di PS hanno difficolt? a controllare la situazione.
A dar man forte alle forze dell'ordine arriva una colonna blindata della Legione Carabinieri di Chieti, che forza il blocco stradale costituito all'ingresso della Citt?.
La reazione dei sulmonesi ? immediata e rabbiosa: i vetri dei camion al seguito della colonna sono distrutti da una pioggia di sassi.
Molti militari rimangono feriti. Gli autisti sono costretti a fermare le macchine, mentre dagli autoblindo si sparano raffiche di mitra.
Superata la resistenza, la colonna avanza verso il centro.
Bidoni di nafta vuoti sono spinti sotto le ruote degli autoblindo, che sono costrette a difficili manovre. Si cerca intanto di far fuggire il Prefetto con vari stratagemmi.
A questo scopo il Sindaco Mazara tenta un diversivo: dalla Rotonda di San Francesco comincia ad arringare la folla, mentre il Prefetto si appresta ad uscire dal portone in Via Mazara.
Quest'ultimo perè, manca di decisione, indugia fin troppo, tanto che i manifestanti si avvedono dell'inganno, e il Prefetto ? costretto a tornare dentro il Municipio, sotto una fitta pioggia di sassi.
Peggio andr? al Vice Questore dell'Aquila che, poco dopo, circondato dalla folla, ? seriamente malmenato.
Nel frattempo, il Prefetto, al sicuro nel Municipio, chiede aiuto alla celere di Roma e Senigallia. La situazione rimane sostanzialmente immutata fino alle prime ombre della sera, quando il Prefetto spazientito, invece di aspettare la Celere, chiede l'intervento dell'esercito; a bordo di un autoblindo riesce ad andarsene da Sulmona.
Accorrono altri reparti di forze dell'ordine. Gli insorti sembrano non siano piü in grado di resistere a tale schieramento di forze. Le barricate di legno stanno per essere travolte, ma prontamente sono date alle fiamme, in maniera tale da innalzare delle barriere di fuoco contro i superiori mezzi militari.
Verso le 22,00 torna la calma.
Ma poco dopo si sparge la voce che sulla Statale 17 stanno arrivando reparti della Celere da Roma e da Senigallia. I Sulmonesi in massa accorrono verso il Ponte di San Panfilo e si danno da fare per costruire un potente sbarramento bruciando tronchi d'albero, ferro e catrame. L'asfalto della strada diventa liquido e arde sotto l'enorme rogo; il ferro si arroventa, le fiamme altissime crepitano minacciose.
Per il momento, i reparti della Celere sono bloccati, e sono fatti oggetto di bersaglio da parte di rivoltosi muniti di fionde.
Numerosi giornalisti arrivati al seguito della Celere sono invece guidati in Citt?, attraverso le campagne.
Verso l'alba, dopo l'intervento dei pompieri che hanno spento l'incendio sul Ponte di San Panfilo, le colonne della Celere entrano in Sulmona.



 

Sulmona, il 3 febbraio 1957 si risveglia sotto una vera e propria occupazione militare, tanto ? vero che alcuni richiamano alla mente l'occupazione dei Tedeschi.
Le consegne date alle forze dell'ordine sono precise. Evitare qualsiasi assembramento, intendendo con ciè anche il semplice parlare di tre persone.
Questo stato di tensione cresce durante la mattinata, fino a quando un poliziotto infastidito da alcuni ragazzetti, getta contro di loro un lacrimogeno.
E' il segnale della riapertura delle ostilit?. Al grido di "Jamm' mè" ecco che giovani ed anziani, uomini e donne, riprendono la lotta.
La Celere ? fatta oggetto di una sassaiola cosá fitta che all'inizio ? costretta a disperdersi; un celerino perder? addirittura un occhio.
Subito riorganizzatesi, le forze dell'ordine cominciano a girare con le camionette intorno alla statua di Ovidio, per intimidire i sulmonesi; la lotta, piü dura rispetto al giorno precedente, si accende in vari settori: Piazza XX Settembre, Piazza Garibaldi, Corso Ovidio, Porta Pacentrana ecc.
Nonostante vi siano piü di 600 effettivi tra le forze dell'ordine, quest'ultime hanno serie difficolt? nel contenere l'urto della folla inferocita.
A favore della guerriglia sulmonese, giocano gli spazi ristretti dove erano costretti ad operare le camionette, la non conoscenza dei luoghi, l'adesione dell'intera cittadina alla rivolta: basti pensare al parroco di Santa Chiara che picchier? due celerini che rincorrevano dei chierichetti, o alle donne che, con la borsa della spesa raccolgono pietre, dopo averle divelte dal selciato con dei picconi, per rifornire gli uomini.
Ogni tanto si ode qualcuno della folla che grida "Alla carica" e, con stupore degli agenti, i rivoltosi, invece di andare avanti, scompaiono.
Vanno a "caricare" i sassi, e prontamente tornano all'attacco.
Dai tetti piovono improvvise scariche di tegole che provocano lo sbandamento della polizia.
Nel tardo pomeriggio la lotta si concentra nel complesso intreccio dei vicoli del centro storico, dove sono erette nuove barricate.
La manovra dei mezzi della Celere non ? agevole come nelle ampie piazze di Roma; vari gruppi di agenti rimangono isolati, le loro macchine sono rovesciate; fucili e pistole cadono nelle mani dei rivoltosi, ma questi non se ne servono.
Preferiscono i sassi, i bastoni, le bottiglie; tutte armi, a loro dire, consentite dalla Legge !
Infatti, il capogruppo in Consiglio comunale del PCI, Claudio Di Girolamo, ed altri cittadini piü in vista, avevano saggiamente fatto circolare la voce secondo la quale la Legge considera legittima, durante le rivolte, l'uso di armi quali pietre e bastoni, ed invece proibiva e puniva l'uso di armi da fuoco e molotov.
Questa bugia, detta a fin di bene, fece sá che non ci fu nessun morto durante i due giorni della rivolta. Va detto anche che i sulmonesi hanno fatto una questione d'onore nell'evidenziare che da parte loro non si sparè nemmeno un colpo d'arma da fuoco.


 


 

La rivolta tocca il suo apice al calar del sole, quando le forze dell'ordine stanno per riprendere il controllo della citt?. All'improvviso si sente un rumore assordante, cupo, inspiegabile, che proveniva non si sa da dove.
La terra cominciè a vibrare e si ebbe una sensazione di angoscia.
In quel momento le campane ripresero a suonare a distesa; l'intensit? della sassaiola era al massimo, si perforano a colpi di piccone i pneumatici delle camionette, si scoperchiano i tombini per farne oggetti da lancio e per impedire il passaggio dei mezzi delle Celere.
Il rumore si avvicina sempre di piü a Piazza XX Settembre, e si scopre che ? causato da una cisterna metallica destinata a contenere la nafta, lunga 6 metri per un diametro di due metri, usata a mè di barricata mobile che sbarra quasi tutta la strada e favorisce l'avanzata dei rivoltosi.
Alla vista della cisterna, intrisa di benzina e con bagliori di fiamme che la sovrastano, i celerini ripiegano dalle proprie posizioni. Forti di quest'arma, i rivoltosi riconquistano Piazza XX Settembre e quindi, avanzano ancora, attestandosi al Quadrivio.
Tutta la Citt? ? avvolta da una densa cortina di fumo e di gas lacrimogeni.
Ma la Celere, nel momento in cui si accorge che sta per perdere il controllo della situazione, smette di sparare in aria per sparare all'altezza delle gambe dei rivoltosi.
I rivoltosi sono inseguiti e manganellati dappertutto, e poco prima delle 20, Michele Accurso, un'apprendista falegname, ? ferito a Piazza del Carmine.
La rivolta, a questo punto cala d'intensit?, ed in meno di mezz'ora la Celere ristabilisce il controllo sulla citt?.
I rivoltosi si affrettano a rientrare nelle proprie abitazioni, oppure a rifugiarsi nei pochi bar rimasti aperti, che perè si riveleranno delle vere e proprie trappole, con i rifugiati che sono stanati dai lacrimogeni.
Uno degli ultimi e piü impressionanti scontri fu quello avvenuto all'Ospedale, allora situato nel Palazzo dell'Annunziata, che fu invaso dalla Celere fin dentro le corsie, dove medici e familiari di feriti subiscono indiscriminate violenze.
Solo verso le 23,00 l'ordine fu ristabilito definitivamente. La rivolta di "Jamm' mè" si concludeva con un bilancio di oltre 200 feriti tra sulmonesi e forze dell'ordine; inoltre 44 cittadini, fermati dalla polizia, furono nottetempo rinchiusi nel carcere di San Pasquale.
Per prevenire un assalto, nella notte tra il 3 ed il 4, gli arrestati furono trasferiti nel carcere di Chieti.
Va detto che gli arresti furono effettuati nella fase calante della rivolta, quando era oggettivamente difficile cogliere delle persone in flagranza di reato.



 

Successe che molti cittadini furono arrestati solo perch? avevano le mani sporche, prova lampante, secondo la polizia di aver lanciato pietre. Ma anche chi aveva le mani pulite fu arrestato, poich? si pensè che avesse fatto in tempo a lavarsele.
Gli arrestati saranno incriminati con l'accusa di resistenza, oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, adunata sediziosa, violenze e danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato.
Il giorno 4 febbraio 1957, la polizia ed i carabinieri restarono consegnati presso la caserma Cesare Battisti e gli arrestati, grazie all'opera del Sostituto Procuratore della Repubblica, dott. Salvatore Sambenedetto, furono tutti liberati in giornata.
Sono due decisioni che spegneranno definitivamente il fuoco della rivolta.
Ma gli effetti furono tali che il Parlamento intervenne sulla questione il 28 marzo di quell'anno. Cinquecento sulmonesi si recheranno a Roma con ogni mezzo per assistere alla discussione parlamentare sulla rivolta di "Jamm' mè".
Alla fine del dibattito la Camera approvè un'unica mozione che verr? detta Corbi-Spataro, dai nomi dei primi firmatari. Essa doveva farsi carico dei problemi atavici del Sulmonese, specialmente dal lato occupazionale, ma restè una scatola vuota.
La mozione fu quindi un atto formale, di fronte alla quale il Governo non si sentá impegnato.
Significativo ? quello che avvenne nel pieno della campagna elettorale per elezioni amministrative del 24 novembre 1957, quando venne in citt? il Ministro del Tesoro Campilli, democristiano.
Costui, nei suoi comizi elettorali, si lanciè in una serie di promesse, totalmente irrealizzabili; da qui la nascita del neologismo "campillate".
Ma il Ministro, resosi conto dello scetticismo dei sulmonesi, minaccio piü o meno velatamente di votare per la Democrazia Cristiana, altrimenti "..una fabbrica non verr?".
La fabbrica (fantasma) era la Novilegni, che servá alla DC per fare il pieno dei voti nelle elezioni.
Sindaco fu eletto il Generale a riposo Alberto Ruggieri.
La DC, aver lasciato ad altri la patata bollente del distretto militare, ritornava ad occupare lo scranno piü alto di Palazzo San Francesco.
Come sempre, si trasse profitto dalla buona fede dei sulmonesi.

 http://digilander.libero.it/nadiapad/

  Image1.jpg (29118 byte)

maurizio padula

Dei moti popolari di "jamm' m?Ç", che costituiscono l'episodio pi? clamoroso, se non il pi? significativo, della storia di Sulmona dal dopoguerra a oggi, alla lunga si sarebbe finito col perdere anche la memoria.

Esistono,  vero, documenti d'epoca sparsi un po' dovunque, tra le cronachette locali e sulle pagine nazionali di quotidiani e riviste, o nei servizi radiofonici. Esistono i ricordi, pi? o meno deformati dal tempo, di singoli protagonisti. Ma una ricostruzione organica, finora mancava. Il libro di Maurizio Padula colma questa lacuna. Quei lontani fatti - non tanto per?Ç, che non facciano sentire ancora oggi gli effetti delle scelte politiche e di sviluppo che allora determinarono - vi sono ricostruiti con molta chiarezza, maturit? di giudizio e scrupolo di ricercatore, oltre che con una sottile e costante simpatia umana.

Ne viene fuori, alla fine, l'immagine di una narrazione bene orchestrata, che ha il sapore durevole delle cose "compiute".

(v.m.)

Prefazione

foto2.jpg (9117 byte)

 http://www.smpe.it/storia/jamme1.asp

  '' La rivolta di Jamm' m³œ

' Parte prima

JAMM' MO'.
Due parole del dialetto sulmonese urlate da migliaia di voci come un grido di guerra nelle "Due giornate" del 2 e 3 febbraio 1957, una sorta di Intifada ante-litteram.
Andiamo ora! Questo ³³ l'essenza della frase, che racchiude una sollevazione interamente spontanea di una popolazione intera, che senza nessuna distinzione di classe insorse a difesa della sua dignit³?, contro l'ennesima spoliazione. Punto centrale della rivolta di "Jamm' m³œ" (che in ambienti governativi fu definita borghese per minimizzare l'apporto della popolazione) ³³ la soppressione del distretto militare, fatto che costituir³? la classica goccia che fa traboccare il vaso.
Sulmona ha avuto un lungo percorso storico fatto di spoliazioni, torti e privazioni subiti dalle varie autorit³? succedutesi nel tempo, in primis dal capoluogo di provincia.
Ma parallelamente la citt³? ha coscienza della sua importanza, delle proprie tradizioni militari, dei suoi inalienabili diritti. Da questo contrasto ³³ scoccata la scintilla che ha trasformato pacifici cittadini in rivoltosi.
La cronologia di "Jamm' m³œ" parte nell'agosto del 1954, quando l'allora titolare del Ministero della Difesa, Paolo Emilio Taviani, in esecuzione di alcune direttive della NATO, tese a ristrutturare la rete degli eserciti alleati in Europa, deve sopprimere 54 distretti militari in Italia. Tra questi ³³ compreso quello di Sulmona.
Quando la notizia trapela in citt³?, l'amministrazione guidata dal Sindaco Ercole Tirone, non rimane inerte. Viene immediatamente convocato un Consiglio Comunale straordinario per il giorno 19 agosto che si conclude con le dimissioni all'unanimit³? del Consiglio stesso.
Immediatamente viene formato un Comitato di agitazione che proclama uno sciopero di 24 ore per il giorno successivo.
La citt³? ³³ in fermento, al Municipio accorrono 40 dei 65 sindaci dei comuni compresi nell'ambito territoriale del distretto e gli altri sindaci non pervenuti, fanno giungere dichiarazioni di piena solidariet³?.
Tutto il Centro Abruzzo era legato al distretto militare, punto di riferimento patriottico per essere stato il luogo di mobilitazione nei due conflitti mondiali. Pi³? di cinquemila persone si accalcheranno a Piazza XX Settembre per sentire oratori di tutti i partiti politici difendere la presenza del distretto a Sulmona.
Nello stesso giorno una delegazione di amministratori locali, guidati dal Sindaco, si incontra con il Prefetto, il quale dichiara che ogni decisione in merito alla soppressione del distretto ³³ sospesa.

 

Sembrerebbe una vittoria, ma in tarda serata dal Ministero della Difesa giunge un telegramma al Sindaco che conferma il declassamento del distretto, il che costituisce l'anticamera della definitiva soppressione.
La reazione ³³ immediata: lo sciopero ³³ prolungato di un giorno e il Comitato di agitazione si costituisce in Comitato di Difesa Cittadina.
Il 24 agosto, una delegazione di sulmonesi, capitanata dal Vescovo Luciano Marcante, si incontra con il Ministro Taviani. Quest'ultimo li rassicura, assicurando loro che il distretto non verr³? soppresso.
Ma la citt³? non crede alle promesse del Ministro e rimane sempre in guardia.
Difatti alcuni giorni dopo, si diffonde la voce che il Ministro Taviani abbia solo congelato il provvedimento di soppressione, anzich³³ ritirarlo.
Fino al maggio 1955 la questione distretto cala d'intensit³?, il Comitato di Difesa Cittadina va praticamente in disarmo, ma a met³? maggio il Comandante del distretto ³³ trasferito ed il suo ufficio rimane vacante per un tempo stranamente superiore a quello fisiologicamente dovuto per l'avvicendamento della carica.
Il sindaco Tirone prontamente scrive al Ministro Taviani che, tuttavia non lo degna di una risposta. Nell'agosto dello stesso anno, si verifica un avvenimento che d³? la misura del precipitare degli eventi: parte dei ritardatari della classe di leva 1934 sono inviati a L'Aquila per la rituale visita di selezione.
La tattica dilatoria del Ministro Taviani comincia a far sentire i suoi effetti.
Di nuovo il sindaco scrive al Ministro che nemmeno questa volta risponde. Si ricostituisce il Comitato di Difesa Cittadina. Le nubi sono sempre pi³? cupe all'orizzonte.
La citt³? si mobilita di nuovo, ma a bloccare il tutto ci pensa una lettera dell'Onorevole Natali, il quale promette il suo interessamento per far s³ƒ che siano scongiurate decisioni definitive in merito al distretto. La mossa di Natali, aquilano, ³³ in realt³? destinata a mitigare la tensione nell'opinione pubblica sulmonese, poich³³ per l'anno successivo ci sono le elezioni amministrative.
Ma le lacerazioni all'interno della Democrazia Cristiana esplodono, la legislatura si chiude anzitempo ed arriva un Commissario Prefettizio.
La DC si presenta alle urne divisa in tre tronconi: la DC ufficiale, Coltivatori Diretti-Vanga e Coltivatori Diretti.

 

Il responso delle urne per la DC ³³ pessimo; perde, infatti, nove seggi, mentre i Coltivatori Diretti-Vanga ottengono 3 consiglieri ed i Coltivatori Diretti 1 consigliere.
Anche in presenza di una flessione cos³ƒ severa, la DC potrebbe pretendere per s³³ il ruolo di sindaco, ma non lo fece preferendo che fosse nominato Panfilo Mazara, un liberale eletto con la lista civica Campanile e Cupola. Molti videro in quest'elezione il disegno della DC locale di far sbrogliare ad altri la patata bollente del distretto, come in effetti, avvenne.
Nel gennaio 1957 si sparge la voce che la soppressione definitiva del distretto, ormai senza Comandante dal maggio 1955, ³³ vicina. Nel frattempo a capo del Comitato di Difesa Cittadina ³³ posto il colonnello Francesco Sardi De Letto. Il 15 gennaio 1957, il Ministro Taviani appone la firma sul decreto di soppressione del distretto militare di Sulmona.
Il dado ³³ tratto.
Il 18 gennaio il Comitato di Difesa Cittadina convoca per il giorno dopo una manifestazione di protesta presso il Teatro Comunale. Il Sindaco da par suo convoca telegraficamente a Sulmona i colleghi dei 65 Comuni compresi nel territorio del Distretto, dichiaratisi solidali con la protesta sulmonese.
Tutto l'Abruzzo, eccetto il capoluogo di provincia, ³³ al fianco di Sulmona. Basti per tutti citare l'appassionato ordine del giorno di solidariet³? votato all' unanimit³? dal Consiglio Provinciale di Pescara.
Appena ricevutane notizia, il Prefetto Morosi (tra l'altro aquilano) diffida il Sindaco a concedere la struttura agli organizzatori della manifestazione, poich³³ il regolamento sull'uso del Teatro non prevedeva la concessione dello stesso per manifestazioni del genere.
Addirittura, con fare meschino, fa sapere al Sindaco che non lo rimborser³? delle spese del telegrafo.
Ma il Sindaco Mazara, autentico gentiluomo liberale che ha rinunciato all'emolumento che gli spetta, e ha pi³? volte anticipato di tasca propria gli stipendi ai dipendenti comunali, risponde al Prefetto di darsi pace, perch³³ aveva gi³? provveduto direttamente al pagamento, con il suo denaro.
Dopo aver concesso l'uso del Teatro al Comitato di Difesa Cittadina, il Sindaco convoca in seduta straordinaria il Consiglio Comunale.
Oramai ³³ guerra strisciante.

 http://www.sulmona.org/storia/jamm_mo.php

  La storia di Sulmona

Moti popolari di Sulmona

I sulmonesi sono sempre stati una popolazione laboriosa e paziente ma ciononostante sono stati diversi gli episodi in cui essi non sono riusciti a sopportare le angherie del "potere costituito": in particolare nel recente passato furono i due seguenti:

  • nel 1957, la classica goccia che fece traboccare il vaso, fu rappresentata dal trasferimento del Distretto Militare a L'Aquila (la rivale di sempre);
  • mentre nel 1929 dall'introduzione della gabella sulle "cannizze" (una nuova tassa sulle fascine di sterpaglie che le contadine portavano in citt³? per farne del fuoco). In questo secondo caso, i contadini esasperati distrussero praticamente tutte le "garitte" dei dazieri (guardie addette alla riscossione delle gabelle) esistenti lungo la cinta muraria. (vedi E. Mattiocco "Sulmona ieri" pagg. 101-104).

In margine ai moti del 2 e 3 febbraio 1957, mi fa piacere poter riportare un componimento in dialetto locale che ho ritrovato nei miei carteggi. Si tratta di una copia che il mio amico, e direttore didattico Dr. Enea Di Janni, ha riportato nel maggio del 1998, dalla viva voce di coloro che parteciparono agli eventi (e che nel frattempo erano diventati i genitori - o meglio i nonni - dei suoi alunni).


Jamm' mo' !!!

(Ovvero "Le tre jurnate de Sulmone")

Stu guverne, dorme dorme,
passe uogge pe' demane
sole nghe le bomb' ammane
le putemme resbi³?!

Pe' piarce mo' pe fesse
Ce facirene la prumesse
C'a Sulmone lu Destrette
Nun l'avriene cchi³? levate

Ma se l'hanne po' purtate,
ste fetiente sbrevugnate!
A sta belle futteture
Che ce porte tante danne,
la pacienza da tant'anne
s'³³ perdute adderetture!

E de sere e de matine
Senza tante meravije
S'hanne viste i sulmuntine
Pe' tre juorne senza brije!

T'hanne fatte la battajje
Nghe la stupeta sberraje
Ca la cucce ha auta fa
Dentre e fore a sta cett³?.

I celerine strafettente
Mo se l'hanna recurd³?
Chesta bella lezzione
Recevute da Sulmone,

La miserie de la vite
Mo' l'avessa fa pent³ƒ,
stu guverne tante cane
c'a lu puoste de le pane
te fa d³? manganellate
a lu povere affamate!

Al componimento segue la seguente nota esplicativa di Enea:
"Componimento anonimo, emerso del popolo sulmontino durante le famose giornate di "Jamm'mo'!" del 2 e 3 febbraio 1957. Sia la scrittura che il tipo di verso "l'ottonario" riflettono proprio la caratteristica delle composizioni popolari. Sull'argomento ³³ stato scritto da M. Padula un volumetto edito postumo, nel 1986, da Di Cioccio, a cura di M. Calore, F. Maiorano e V. Monaco e intitolato "Jamm'mo'"."


Franco Pallozzi

 
Jamm' mo'
jamm mo foto
jamm mo giornali
sulmona ieri
jamm mo multimedia
jamm mo info e contatti
jamm'mo scrivi
jamm mo altri siti
siti amici
notizie
Contact info
 Copyright © Jammmosulmona@libero.it 
BOXMAIL.BIZ - BEST WEB BUILDER
WOL.BZ - Free hosting
RIN.ru - Russian Information Network 3